«il manifesto, 26 luglio 2013
«La democrazia moderna è da sempre impregnata di attività statali tese a sorvegliare e punire le attività dei cittadini ritenute anticonformiste».
Saremmo in presenza - secondo lo stereotipo marxiano rivisitato - del solito governo «comitato d'affari», strumento del quartiere generale legge e ordine? La faccenda è ben più complicata (e introversa) del semplice quanto consapevole camuffamento di interessi dominanti. Sebbene saldature tra élites politiche ed economiche siano perennemente all'ordine del giorno nella fisiologia del potere e i governi tengano sempre in estrema considerazione quelli che sono i rapporti di forza in campo, non di questo si parla.
Il tema - semmai - è sottotraccia e quasi subliminale, oltre l'appercezione cosciente e la concettualizzazione legittimata a ortodossia: il segno di una cattiva coscienza, sempre oggetto di autocensura perbenistica, che accompagna la liberaldemocrazia fin dai primi momenti della sua instaurazione; una sorta di sindrome duplicativa alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde come archetipo vittoriano della coesistenza schizofrenica di personalità opposte nello stesso soggetto. Ergo, una patologia che si annida nei riflessi condizionati e negli automatismi inconsci di un'intera «civilizzazione»; l'immortale ipocrisia dell'omaggio del vizio alla virtù. Maurice Duverger la definiva «le due facce dell'Occidente»: l'ambivalenza della soppressione dei privilegi aristocratici accompagnata dalla creazione di nuove oligarchie attraverso le ineguaglianze economiche.
L'indicibile svelato
Sicché, un sistema che alla luce del sole promette eguaglianza dei diritti mantenendo sottotraccia disparità di potere che ne contraddicono i presupposti, abbisogna di un forte controllo sulla propria base sociale e altrettanto elevati ambiti di segretezza; quell'apparato disciplinare, in larga parte composto da arsenali comunicativi a messa in funzione automatica, esplorato con particolare acume nella seconda metà del secolo scorso da Michel Foucault: «la forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti uguali in linea di principio, era sottesa da meccanismi minuziosi, quotidiani, fisici, da tutti quei sistemi di micropotere, essenzialmente inegalitari e dissimmetrici».
Contraddizione inconfessabile che sfocia in maniacalità da minaccia incombente: il rapporto paranoico-schizoide con il demos, ossia il celebrato cratos dell'ordine democratico, la cui sacralizzazione laica si accompagna al timore, ereditato dalle epoche precedenti e incistato nel subconscio collettivo del privilegio, di quello stesso demos come potenziale agente di sovversione. L'indicibile che solo ben di rado viene detto; e con tutte le prudenze dell'outing di un vizio infamante.
Ad esempio, agli albori del capitalismo industrialista, il grande sistematizzatore dello stato nascente - Adam Smith - nelle sue Lezioni di giurisprudenza definiva esplicitamente il governo «una combinazione dei ricchi per opprimere i poveri e conservare i propri vantaggi». Mentre - eccezioni a parte - la retorica pubblica ha sempre promosso argomentazioni finalizzate a rimuovere consapevolezze destabilizzanti: olisticamente organicistiche format Menenio Agrippa; quindi tendenti a proporre modelli di rappresentazione che anestetizzassero le distinzioni e il pensiero critico nei subalterni attraverso la propaganda ecumenica nelle sue più svariate e conformistiche modalità.
I ricostruttori dell'eccezionalismo liberaldemocratico occidentale nella vulgata mainstream narrano come agli albori della modernità il Leviatano fosse preposto al compito di tenere a bada la ferinità del popolo e che il passaggio successivo fu quello di porre sotto controllo il Leviatano stesso mediante bilanciamenti e regolazioni.
Questo nella dimensione lumeggiata dalla benevolenza. Mentre, nelle penombre incupite dall'avversione, i retropensieri dei ceti privilegiati hanno continuato a coltivare pregiudizi ansiogeni sulle potenzialità eversive di classi percepite come pericolose. Da tenere prudentemente e costantemente a bada, intrappolandole in meccanismi e modelli di rappresentazione che ne depotenziassero la sovversività; l'antico timore tanto delle secessioni (Aventino) come delle insurrezioni (jacqueries), allontanato grazie a un abile gioco di specchi deformanti con cui apprestare falsi bersagli per il risentimento dei subalterni.
Giustamente Alessandro Pizzorno sottolineava, tempo fa, gli aspetti di manipolazione insiti nelle tipiche contraddizioni di identità collettive formatesi sul terreno pluralista e poi riassorbite dalle strutture della rappresentanza mediante burocratizzazione e cooptazioni individuali («l'orgoglio dell'invenzione politica occidentale, il pluralismo, appare destinato ad accrescere il cinismo fra i potenti, la segretezza fra i governanti e l'indifferenza fra i membri della città»).
Non a caso sono proprio i Padri Fondatori americani, inventori della democrazia rappresentativa, a mettere per primi a punto quanto lo storico Howard Zinn definisce «il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni... associando il paternalismo al comando». Ma essi stessi ne erano completamente consapevoli? Non si direbbe. Intrappolati nelle proprie reti argomentative - come in un tipico caso di rimozione - definivano «patriottismo» quegli apparati di sorveglianza sociale che avevano escogitato per deviare lo sguardo delle moltitudini (lontano da quel patriziato coloniale che si rappresentava garante dell'interesse generale).
Qui sta il punto: fino da allora e ancora oggi la strana mescolanza che alimenta il gioco democratico, fatta di buoni sentimenti inclusivi e inconfessate/inconfessabili segretezze escludenti, è shakerata con un riflesso condizionato: l'ossessione dei conflitti sociali distruttivi e non gestibili, da esorcizzare dirottandoli verso falsi bersagli. Sotto le settecentesche sequoie del New England erano le giubbe rosse di re Giorgio o i nativi americani; in età industrialista il sottoproletario, l'immigrato o magari l'ebreo; oggi il terrorista extracomunitario. Più reazione automatica che non congiura di Master of Universe o improbabili power élite alla Wright Mills.
Il nemico latente
Per dirla con Manuel Castells, «il dominio sociale reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano la struttura sociale in un grado tale che il possesso di tali codici apre l'accesso alle strutture del potere». Pensiero pensabile (secondo la formula di Noam Chomsky); che non deve mai prendere consapevolezza che il retropensiero su cui si regge l'intera impalcatura argomentativa di partecipazioni deliberative, cittadinanze inclusive e cosmopolitismi vari è il chiodo fisso del nemico latente. L'ossessione che nel cervello stratificato del Moderno si annida in quello arcaico da rettile, istintuale e aggressivo, su cui si è sviluppato quello «angelicato» liberaldemocratico. Senza mai averlo addomesticato.
Da qui il rovesciamento della massima di Clausewitz «la politica è la guerra continuata con altri mezzi»: spia dell'incubo di un ordine legale circondato da nemici interni ed esterni, contro cui predisporre in permanenza guerre segrete. Sicché - tornando alla cronaca di questi giorni - probabilmente il presidente Barack Obama è davvero sincero nel sostenere le ragioni della sua personale crociata contro il partigiano Snowden, che ha rivelato lo scandalo del «Grande Fratello» stelle-e-strisce; minaccia mortale per quell'assetto di cui il primo presidente afroamericano è il curatore fallimentare.