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Lodo Meneghetti
Spopolamento a Milano. Un grido d’allarme che giunge da lontano
6 Novembre 2004
L’autore mi invia questo scritto: una corrispondenza dal passato. L’articolo originario (qui ne sono pubblicati stralci e qualche aggiornamento in corsivo) è uscito su polinewsia, rivista del Politecnico di Milano, vent’anni fa, il 13 aprile 1984.

Spopolamento a Milano. Un grido d’allarme che giunge da lontano

L’autore mi invia questo scritto: una corrispondenza dal passato. L’articolo originario (qui ne sono pubblicati stralci e qualche aggiornamento in corsivo) è uscito su polinewsia, rivista del Politecnico di Milano, vent’anni fa, il 13 aprile 1984.

Fra il dicembre 1973 e il dicembre 1981 (un arco di soli otto anni) la popolazione residente a Milano è diminuita di circa 140.000 unità, riducendosi a poco più di un milione e seicento mila. La perdita nel solo 1981 è stata di ben 53.000, un record. [Oggi sappiamo che fra i censimenti del 1971 e 2001 i residenti sono diminuiti da 1.723.000 a 1.182.000. Una enormità. Fra i due ultimi censimenti poi, in nessuna delle principali città italiane si è verificata una diminuzione percentuale altrettanto elevata: il 13,6%. Il primato negativo riguarda – fenomeno ancor più significativo – anche le famiglie, -6,1 %. Un recente modesto aumento della popolazione è dovuto esclusivamente all’ingresso di stranieri]. Uno sconvolgimento demografico che tuttavia non sembra aver molto preoccupato né gli amministratori né certi presunti esperti milanesi. Un breve segnale d’allarme è risuonato negli uffici dei servizi statistici municipali riguardo al solo calo delle nascite ormai regolarmente superate dalle morti; mentre la componente più pesante della perdita consiste nella netta prevalenza dell’emigrazione sull’immigrazione. Un obbligo di andarsene, una scelta forzata anche quando descritta sociologicamente come libera volontà. Né si può pensare a una inversione di tendenza a breve e medio termine trattandosi di un sistema di cause ed effetti che riproduce tanto più se stesso quanto più si produce. Quale inversione di tendenza poi, se addirittura sembra prevalere, sia nell’amministrazione comunale sia in certi ambienti sociologici e urbanistici, quasi un compiacimento per il “ridimensionamento demografico” della città? Un’illusoria fiducia nell’equazione malthusiana: meno gente abita a Milano uguale meno problemi, mentre è vero il contrario. Infatti si è aggravata enormemente la contraddizione fra città del giorno e città della notte, se così si può dire; cioè fra la città del lavorare – studiare – vendere – comprare – ecc. e la città del risiedere. Sarà quindi sempre più difficile, forse impossibile, realizzare un’identità di Milano come città unitaria e permanente in se stessa, non solo un segmento dell’area metropolitana squilibrato nel funzionamento sia nel tempo sia nello spazio. [Se la “città notturna residente” si è ridotta a circa 1.200.000 unità, la “città diurna invadente” ne conta almeno il doppio].

La mancanza di una decisa politica della residenza – per giustificarla non bastano le mistificazioni intorno al cosiddetto riequilibrio residenziale dell’area metropolitana e della regione – è il corrispettivo della scelta a favore di una terziarizzazione spinta: o, se si vuole, la resa degli amministratori di fronte a un fenomeno giudicato inevitabile e non controllabile, infine ultramoderno. Attenzione: respingiamo immediatamente l’accusa che qualcuno, fraintendendo, certamente formulerà: di coltivare, noi, un pregiudizio, corredato da obsoleti sentimenti industrialisti e operaisti, verso le nuove forme semi-thatcheriane di trasformazione economica e sociale. Si dia pure un modesto peso all’altro fenomeno spettacolarmente negativo, la continua perdita di posti di lavoro industriale (da 427.000 nel 1961 a 282.000 nel 1981 nella sola industria manifatturiera), che invece ha prodotto effetti disastrosi anche sulla composizione sociale degli abitanti. Risalta in tutta la sua aberrazione il carattere del modello milanese che non sarà l’analogia con altre situazioni europee a rendere accettabile [è noto che oggi in città industrie vere e proprie così come famiglie propriamente operaie attive non ce ne sono quasi più].

L’aver lasciato incancrenire la questione delle abitazioni da noi considerata come problema residenziale in senso lato volto a inserire in una prospettiva di nuova città la città storica e la città nuova, ha costretto molte persone, intere famiglie ad andarsene, giacché ha aggiunto nuova forza agli autonomi effetti di dislocazione residenziale apportati dalla deindustrializzazione centrale. Ma ha anche impedito nuovi ingressi in città per risiedervi ai lavoratori dipendenti del terzo settore che avrebbero potuto diminuire la penosità del rapporto casa lavoro. Non basta. Nonostante la distruzione o l’emarginazione territoriale dell’occupazione nell’industria, la restrizione dello spazio residenziale prima destinato a famiglie operaie e di altri lavoratori industriali è stata proporzionalmente così forte che oggi [secondo i dati censuari del 1981] il pendolarismo da lavoro industriale si manifesta ancora secondo una netta prevalenza delle entrate in città.

Tutto il sistema di rapporti ed equilibri fra le destinazioni funzionali, produttive e riproduttive, e di coerente uso degli spazi, che in qualche modo a Milano aveva conservato a lungo originali caratteri dai soddisfacenti risvolti sociali, è saltato completamente. “Non criminalizziamo il terziario” dicono i benpensanti. Ma la questione è un’altra. Vediamo di quali attività si tratta realmente. Dobbiamo farlo senza lasciarci abbagliare dai lampi con cui per prima l’amministrazione comunale poi altri enti pubblici e no avvolgono disparate e discutibili iniziative dirette a sollecitare un giudizio benevolo sulla trasformazione della città in una sola direzione. Mentre continueremmo a non avere il minimo sentore di un progetto di largo respiro circa la residenza, verificheremmo che ben poche delle ondate di terziario che si succedono in città allagando gli spazi residenziali rispondono a quell’aggettivazione (“avanzato”) con cui si sarebbe disposi a giustificare anche la distruzione (per carità, soltanto all’interno salvando le facciate) di Sant’Ambrogio. Procede senza soste alla conquista della città residenziale un settore altro che innovatore: tradizionale, nascosto, capillare, brulicante, nero, meri uffici o simili che scalzano abitazioni esistenti; attività avulse dal progresso scientifico e culturale, all’opposto degli interessi generali dei cittadini poiché lucrano nel campo delle rendite finanziarie e fondiarie, dei commerci dei prodotti a-qualitativi sia di massa sia di élite, di servizi privati sostitutivi di servizi pubblici: una forma eccellente quest’ultima di speculazione quando non addirittura di truffa. Chi abita nella città centrale o anche ormai in parti più esterne verifica continuamente persino alla vista una miriade di tali casi. Preoccupa che gli amministratori pubblici esprimano soddisfazione per questa “ricchezza” di attività milanesi (in conferenze, in interviste) e ancor più preoccupa che tale tipo di sostituzione della residenza avvenga senza volontà di controllarla visto che il nuovo permissivismo dello stesso regolamento edilizio riduce a un gioco di bambini il mutamento da abitazione a ufficio delle unità immobiliari (non parliamo poi, questa volta incolpevole o relativamente colpevole l’amministrazione comunale per la competenza di vigilanza urbana, della pratica insidiosissima di affittare una abitazione come ufficio).

Intanto sul versante del terziario più moderno o in ogni modo esposto alla luce del sole, che in genere ha conquistato i suoi spazi anch’esso distruggendo interi lotti residenziali o occupati da altri servizi, non esiste una strategia riferita a vaste dimensioni territoriali. Non si è adottata un’ottica regionale secondo cui superare gl’inganni e gli errori di certi decentramenti decantati e poi risolti a Milano e vicinanze: quasi sempre sulla base di interessi corporativi e speculativi fondiari, trascurando persino le più elementari norme localizzative per esempio dal punto di vista della facilitazione di trasporto su mezzo pubblico per gli impiegati; distruggendo inoltre terreni irrigui coltivati.

Al principio di marzo del 1982, a quasi sette anni dalle formazione di una giunta di sinistra, i comunisti milanesi si domandarono finalmente come rilanciare la costruzione di alloggi pubblici e privati, e perorarono un progetto-casa per Milano e l’hinterland. Che la proposta fosse deludente, in primo luogo per le quantità – circa 30.000 stanze, dunque non più di 8.000 alloggi, tutti in zone periferiche – interessa meno della data talmente recente nella quale si decise di sollevare il problema. E che le quantità enunciate esigessero addirittura una correzione in aumento delle previsione del piano regolatore mostra semmai che questo stesso, evidentemente falsando il giusto proposito di limitare l’espansione fisica della città, infine si adeguava perfettamente anzi favoriva le trasformazioni insensateche abbiamo prima messo in discussione.

Oggi Milano deve rimpiangere la sparizione delle due classi sociali, antagoniste ma anche portatrici di comuni valori cittadini, che hanno garantito per lungo tempo un buon funzionamento delle strutture, delle infrastrutture, degli spazi civili: classe operaia e borghesia industriale. Oggi la città, irriconoscibile sotto ogni aspetto, è completamente dominata dai ceti finanziari, speculatori fondiari, commerciali. Anzi, una reductio ad unum delle definizioni di ruoli, mi porta a privilegiare quello commerciale: infatti tutto si riconduce al comprare e vendere, in particolare la merce più preziosa, il denaro. “Commercializzazione della città” – scrivi riguardo a Venezia – responsabile della orribile trasformazione degli spazi storici. Milano è peggio (naturalmente, si dirà). In una pagina dell’ultimo libro (La partecipazione in urbanistica e architettura. Scritti e interviste) si può leggere:“La nuova classe commerciale ha provato godimento nel distruggere, per rinnovarli a sua immagine, i vecchi posti di ritrovo, i bar, le trattorie, i negozi, i cinema e i teatri storici per trasformali in pure macchine da soldi; nel demolire interni di buon gusto, umani nelle loro forme, per sostituirle con nuove pretenziose, pacchiane, o provvisorie e fragili”. Inoltre siamo perseguitata dalle manifestazioni per la moda. Proseguo:“I padroni della moda, oggi ascesi al ruolo di padroni di Milano, se ne impippano degli interessi generali dei cittadini. La occupano nelle residue parti migliori, la deformano. Il pianterreno delle case sempre e spesso alcuni piani o l’intero edificio nelle strade del centro e negli assi stradali radiocentrici: una immensa boutique; il tratto di città teresiana e giuseppina, poi: case per sempre svuotate di umanità, case-magazzino, le finestre private del loro ligneo disegno, sorde e mute, i pellegrini sui marciapiedi invetriati e abbagliati e dubitosi; le facciate di grandi palazzi nobiliari e borghesi cortinaggio degli spazi all’interno sopraffatti”.

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