il Fatto quotidiano
«Pubblichiamo parte dell’intervento che il professor Azzariti ha tenuto nel convegno dei Comitati del No lunedì 2 ottobre 2017»
Così è per l’ultima proposta, elaborata dagli stessi protagonisti che pochi mesi addietro si erano accordati per introdurre un sistema del tutto diverso, che ora immaginano di poter escogitare un meccanismo grazie al quale - secondo le parole dei commentatori più accreditati e dei più scaltri esponenti politici - si garantisca a Berlusconi di ottenere la leadership nel centrodestra, a Salvini di fare il pieno nei collegi del nord, ad Alfano di provare a non scomparire, a Renzi di tacitare gli avversari interni e orchestrare un trappolone per Pisapia, a quest’ultimo di affrancarsi dall’ingombrante D’Alema e abbandonare la sinistra soi-disant radicale.
È questo un terreno di discussione inaccettabile. L’espressione unicamente del livello di assoluta autoreferenzialità della politica, un’ostentazione della politica che si allontana sempre più dal mondo reale. Allora, il nostro primo sforzo credo debba essere quello di riportare con i piedi per terra il confronto sulla legge elettorale. Ricordare, che questa non serve per assicurare il risultato ai giocatori, bensì a permettere al popolo sovrano di esprimere e scegliere i propri rappresentanti.
Sulla riforma della legge elettorale mi limito qui a due considerazioni. In primo luogo, ricordo che entrambe le decisioni della Consulta sui sistemi elettorali hanno rilevato che le ragioni della governabilità - obiettivo politico legittimo - devono però essere perseguite “con il minore sacrificio possibile per la rappresentanza politica nazionale”, la quale “si pone al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo prefigurati dalla Costituzione”.
A me sembra chiaro il senso di un tale rilievo: l’ansia di governabilità che ha dominato la politica in Italia nell’ultimo quarto di secolo è andata troppo oltre ed è giunta a comprimere eccessivamente il valore supremo della rappresentatività dell’assemblea parlamentare. Dopo queste sentenze, il buon legislatore non perderebbe un attimo del suo tempo e - ringraziata la Corte per averla avvertita del pericolo incorso - rimedierebbe al mal fatto, riscoprendo le virtualità della rappresentanza politica che si pone alla base della nostra democrazia costituzionale.
V’è, poi, una seconda ragione che dovrebbe sollecitare a invertire la rotta. Ed è la constatazione dello stato in cui ci troviamo. Dopo venticinque anni di democrazia maggioritaria nessun risultato auspicato è stato conseguito: non la promessa semplificazione del sistema politico, che è invece esploso e s’è frammentato al suo interno; non la reclamata stabilità dei governi, costantemente ostaggio di maggioranze sempre più litigiose; non l’illusione della scelta del governo rimessa al corpo elettorale, che non decide ormai più nulla, non solo non sceglie il governo, ma neppure i propri rappresentanti, neppure l’ultimo dei peones.
Non solo non si sono raggiunti gli obiettivi perseguiti ma si sono pericolosamente inaridite le fonti che alimentano la democrazia costituzionale. Il Parlamento in primo luogo. Quest’ultimo io credo sia stato il peccato più grande.
Se vi è un organo sacrificato dal lungo regresso che ha accompagnato il progressivo, apparentemente inarrestabile, declino del paese questo è stato l’organo della rappresentanza popolare. Oggi il Parlamento italiano non conta più nulla, schiacciato dal governo che ne domina i lavori, impedito al confronto da regolamenti fatti apposta per poter decidere senza discutere. Il Parlamento sembra aver perduto ogni autonomia di organo costituzionale, posto ai margini della nostra forma di governo, che pure si vuole ancora qualificare come “parlamentare”. Questa “riduzione al nulla” del Parlamento è il più grave dei peccati e la più imperdonabile delle leggerezze perché - come scriveva Kelsen - “alla sorte del parlamentarismo è legata la sorte della stessa democrazia”.
In verità, il Parlamento oggi non è stato solo abbandonato dalla classe politica, che discute altrove, ma anche dal popolo che si indigna, ma non va più a votare, che non si riconosce più nelle istituzioni democratiche. Ed è questo il lato più preoccupante perché non c’è democrazia senza consenso. Invero, non c’è neppure un governo democratico senza consenso. Eppure le ultime leggi elettorali sembrano essere state pensate proprio per governare senza popolo, con l’unico scopo di avere un governo la sera stessa delle elezioni, anche se queste fossero andate deserte e comunque a prescindere dalla rappresentanza effettiva, dal peso reale delle forze in campo.
Oggi abbiamo l’occasione di rimettere al centro della nostra riflessione la questione della rappresentanza reale, cercando di ridurre il terribile gap tra rappresentanti e rappresentati; provando a recuperare un po’ di popolo alle ragioni della democrazia e del parlamentarismo.
Per far questo è necessario sfatare un po’ di luoghi comuni. Mai stati veri, sebbene ostinatamente ripetuti. Non è vero, ad esempio, che si vota per “scegliere” il governo: si votano i membri dell’organo legislativo, i rappresentanti della nazione, che poi svolgeranno le proprie funzioni senza vincolo di mandato. La democrazia parlamentare è cosa ben diversa dalla democrazia del capo. Poi, dei parlamentari autorevoli, perché realmente rappresentativi della nazione, potranno assicurare un sostegno duraturo e responsabile ai governi, i quali - dopo le elezioni, in base all’esito di esse, e dopo la nomina effettuata dal presidente della Repubblica - si presenteranno di fronte ad essi per esporre un programma di governo. Sono dunque i parlamentari a dover conferire - con mozione motivata - la fiducia al governo e non viceversa. Dunque il parlamento viene prima del governo.
Un Parlamento davvero rappresentativo non può essere il frutto esclusivo di torsioni maggioritarie, premi, sbarramenti e altre diavolerie immaginate solo per giungere ad un esito voluto. La richiesta di una legge elettorale di tipo proporzionale vuole preservare l’essenza e il valore del parlamento di una democrazia realmente pluralista.