La Repubblica, 27 aprile 2016 (c.m.c.)
I soldi, non i soldati, decideranno il futuro di quel vasto spazio che una volta si chiamava Libia. E dove Fayez Al Serraj, ingegnere e politico tripolino selezionato dalla diplomazia onusiana per il suo poco ingombrante profilo a capeggiare il governo di conciliazione nazionale, sta tentando di rincollare i mille frammenti del puzzle esploso dopo la liquidazione di Gheddafi, nel 2011. Impresa quasi disperata, certo. Ma che appare l’ultima carta giocabile prima della definitiva disintegrazione del territorio, alla mercé di trafficanti, milizie e terroristi. Scenario ideale per lo Stato Islamico.
Mentre per l’Italia significherebbe confinare permanentemente a Sud con una terra di nessuno, proprio mentre i nostri partner nordici minacciano di chiuderci i valichi alpini. Un imbottigliamento geopolitico micidiale. Il successo di Serraj dipenderà dalla sua capacità di evitare che alla frammentazione territoriale segua il collasso economico. Dunque il caos totale. La Libia di Gheddafi ha fondato la sua relativa prosperità su due fattori: la ricchezza energetica e la scarsità di popolazione (attualmente stimata in cinque milioni di anime). Ciò permetteva al Colonnello di godere di un diffuso consenso, grazie alla redistribuzione, per quanto ineguale, della rendita petrolifera. E di mantenere sul proprio territorio oltre due milioni di immigrati africani, adibiti a mansioni poco attraenti per i libici.
Qualsiasi governo intenda reggere una Libia riunita, o parte di essa, deve disporre di tale rendita. Ma oggi la produzione dai campi petroliferi tripolitani e cirenaici è ridotta a circa 300 mila barili/giorno. Insieme al crollo del prezzo del greggio, questo significa che entro massimo due anni la Banca Centrale libica non avrà più i soldi per pagare gli impiegati pubblici — ovvero la maggioranza della forza lavoro locale. E soprattutto, il governo non disporrà delle risorse sufficienti per continuare a pagare le milizie che lo tengono in piedi. A quel punto, come scrive l’analista Mattia Toaldo su Die Zeit, il rischio sarebbe di riprodurre uno scenario iracheno, «quando nel 2003 centinaia di migliaia di soldati di Saddam si trovarono senza impiego, e nel giro di pochi anni si trasformarono da militari laici in combattenti dello Stato Islamico».
Ricomporre l’integrità statuale della Libia — invenzione dei colonizzatori italiani — è probabilmente utopico. Ma almeno in Tripolitania e in alcuni insediamenti del Sud-Ovest il governo Serraj, asserragliato a Tripoli, può contare sul sostegno delle principali milizie. In particolare nell’ex capitale e a Misurata — città di antica vocazione commerciale, che dispone delle brigate più efficienti in teatro. Ovviamente non si tratta di scelta ideologica ma economica: finché i miliziani incassano il soldo dal governo, bene. Un minuto dopo, gli stessi fedelissimi potrebbero assaltare le sedi delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali. A protezione di queste ultime dovrebbe essere presto schierato un contingente straniero di circa duecento uomini, di cui una cinquantina italiani. Meno plausibile la protezione internazionale dei pozzi petroliferi, che comunque dipenderà dall’improbabile richiesta esplicita del governo di Tripoli.
Fino a che punto Serraj è davvero appoggiato da europei e americani? Alla prima domanda la risposta non è univoca. L’Italia è fermamente schierata con il governo di conciliazione nazionale. L’America lo sostiene, ma senza spendersi troppo. La Gran Bretagna è impegnata con i suoi esistenziali problemi domestici e comunque è interessata soprattutto alla Cirenaica. La Francia oscilla fra le dichiarazioni di appoggio al governo tripolino e il concreto sostegno che sue unità ombra stanno offrendo al grande rivale di Serraj, il generale Khalifa Haftar. Dalla sua roccaforte di Tobruk, costui si rifiuta di scendere a patti con il rivale tripolino. Punta anzi, grazie al sostegno degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto, a partire alla conquista di tutta la Cirenaica, a cominciare dai pozzi petroliferi. Come per Serraj, anche per Haftar il futuro dipende dalla conquista dei “suoi” campi petroliferi e dall’esportazione del “suo” greggio attraverso un ente petrolifero parallelo. Solo così potrebbe costruire uno Stato cirenaico, di fatto un protettorato egiziano-emiratino.
In queste ore Tobruk sta infatti cercando di esportare illegalmente 650 mila barili di greggio, ma al tanker Distya Ameya, battente bandiera indiana, è stato vietato di attraccare a Malta. Quando il denaro non si ottiene nello scambio contro merci, c’è solo un’alternativa: produrlo. Haftar è in trattative con i russi per stampare pseudo-dinari libici, creando una sua valuta parallela, con gli immaginabili rischi di inflazione.
Quanto a Serraj, il suo percorso richiede abilità di alta acrobazia. Non può infatti fare a meno del pur labile supporto euro- americano e di alcuni Paesi della regione. Ma non può nemmeno troppo esibirlo. Come il suo sfortunato predecessore Ali Zeidan (2012-14), esita a richiedere formalmente l’aiuto militare internazionale perché teme di essere bollato quale fantoccio dell’Occidente. Il quale secondo le locali teorie del complotto lo avrebbe scelto unicamente per farsene legittimare l’ennesima spedizione neocoloniale “stivali per terra”.
La sua prossima mossa, d’intesa con alcune diplomazie europee e con l’inviato dell’Onu Martin Kobler, potrebbe essere quindi di portare a Gadames, presso la frontiera con Algeria e Tunisia, almeno una quota rilevante del parlamento riconosciuto, oggi bloccato a Tobruk da Haftar, per esserne battezzato come legittimo esecutivo. Altrimenti, il fallimento sarebbe dietro l’angolo. E con esso svanirebbero le residue speranze di stabilizzare l’ex Libia.