Nella raccolta di scritti su come rigenerare la speranza e in un saggio sul valore politico dell'indignazione, il filosofo e sociologo Edgar Morin pone la necessità di una politica della trasformazione dopo il crollo del socialismo reale, la crisi ambientale e finanziaria che stanno mettendo in discussione l'egemonia dell'economia di mercato. Un appassionato percorso teorico che prende atto anche dell'incapacità della sinistra reale di fornire risposte adeguate ai conflitti nel capitalismo contemporaneo
Strano percorso intellettuale, quello di Edgar Morin. Comunista negli anni Quaranta del Novecento, come molti altri intellettuali di quel periodo perché vedevano nel partito comunista la forza politica più adatta per combattere il fascismo e il nazismo, prese rapidamente le distanze dal partito appena finita la guerra. Continuò la sua militanza politica in piccoli gruppi libertari a sinistra del Pcf, fino a quando considerò inadeguato anche il marxismo per sviluppare una filosofia della storia e una concezione di rapporti sociali propedeutici alla liberazione dallo stato di necessità rappresentato dal capitalismo. Cominciò da allora un percorso intellettuale che lo portò ad interessarsi del rapporto tra scienza e società, di psicoanalisi, di teoria della complessità.
Eclettico, questo è l'aggettivo più usato per indicare la sua erranza da un tema all'altro. Eppure Edgar Morin è uno studioso rigoroso. Si può dissentire dalle sue tesi, ma è indubbio che il suo percorso intellettuale è segnato da una ferrea coerenza. Coerenza nel sostenere che non sono i rapporti sociali di produzione il punto di partenza per una analisi critica della realtà; rigore nel denunciare le condizioni di illibertà, assoggettamento a un potere che aliena le possibilità di una vita al riparo dalle costrizioni imposte dalla ragione economica. Due sentimenti e uno stile teorico che, nonostante la progressiva presa di distanza da qualsiasi filosofia politica «totalizzante», non hanno mai impedito a Morin di rivendicare, certo con leggerezza e disincanto, il fatto che lui è sempre rimasto un uomo di sinistra, perché ritiene le parole d'ordine della rivoluzione francese - libertà, eguaglianza e fraternità - intimamente legate l'una all'altra. Ci può essere libertà, ma solo se ci sono eguaglianza e fraternità, ha spesso ripetuto nelle sue interviste. Un filo rosso, quello della triade repubblicana francese, con cui ha sempre intessuto le sue analisi, fino a quando, provocatoriamente, ha invitato a compiere un gesto ritenuto, chissà perché, inattuale: tornare, cioè, a studiare Marx, perché la teoria della natura umana del filosofo di Treviri è ritenuta un forte antidoto e un indispensabile strumento per contrastare la riduzione dell'essere umano a merce.
Un riformismo d'altri tempi
Quando sarà tempo di fare una storia delle idee che hanno segnato la presenza degli intellettuali nella scena pubblica tra gli anni Ottanta del Novecento e il primo decennio del nuovo millennio sarà interessante capire il perché molti studiosi sono stati a un certo punto considerati radicali, sebbene radicali non lo siano mai stati. Edgar Morin è uno di loro (lo stesso, in Italia, lo si potrebbe dire per Luciano Gallino), sebbene la sua opera abbia continuamente perseguito il tentativo di coniugare efficacemente democrazia e mercato. Ed è su questo crinale che Morin ha sviluppato spesso molte critiche alla sinistra politica francese e non solo. In questa raccolta di scritti da poco pubblicata - La mia sinistra, Erickson Editore, pp. 252, euro 18,50 con una presentazione di Nichi Vendola e una postfazione di Mario Ceruti - la sua insofferenza verso le scelte del partito socialista francese emerge con molta evidenza, così come è forte il richiamo a qualificare con una forte tensione utopica qualsiasi programma politico di riforma della società. Senza irriverenza, si può infatti dire che Morin è un riformista d'altri tempi, ma questo non significa una sua mancanza di attenzione ai conflitti del presente. E quando scrive che l'inizio del nuovo millennio coincide con la rivolta di Seattle, non lo fa perché ritiene che il movimento cosiddetto altermondialista possa essere ritenuto una riedizione del comunismo, ma perché quel movimento ha ripreso nel fango le bandiere che portano le scritte «liberté, egalité, fraternité», dando ad esse però non una costrizione nazionale, bensì una dimensione globale, planetaria.
Ed è allora interessante seguire la riflessione politica di Edgar Morin, in quanto espressione di un'attitudine critica che prende atto del fallimento del socialismo reale - società peggiori di quelle contro cui si ergevano, sostiene Morin - e che invece riprende filoni minoritari della sinistra novecentesca, come ad esempio l'antiutilitarismo, la riflessione di Karl Polany o il socialismo municipalista francese. È dunque importante individuare le ripetizioni e i détournements che emergono dagli scritti di Morin rispetto a queste teorie politiche che attirano rinnovata attenzione dai movimenti sociali. In primo luogo, il filosofo francese ritiene che un consolidato giudizio negativo sul socialismo reale non inibisca, ma anzi rafforzi progetti politici di riforma del capitalismo. Soggetti centrali di questi progetti politici sono i delusi del «comunismo» e del Sessantotto. Uomini e donne non pacificati rispetto alle ingiustizie che caratterizzano il capitalismo. Accanto a loro, le tante esperienze di solidarietà dal basso che puntano a rafforzare legami sociali incentrati su chiari e forti principi. Da qui, la necessità di difendere lo stato sociale, contrastando il razzismo e il sessismo.
L'ecologia che verrà
Elemento fondante della sinistra auspicata da Morin è però la sua concezione della natura umana, che fa leva su una lettura «umanistica» della nozione marxiana di individuo sociale. L'unicità di un singolo, sostiene Morin, è data solo se si riconosce l'interdipendenza degli uni con gli altri. E in questa interdipendenza trova radice un cosmopolitismo che rifiuta il richiamo al suolo, al sangue e alla specificità culturale, cioè i virus letali del nazionalismo etnicista, della xenofobia e del populismo. Allo stesso tempo, l'«individuo sociale» di Morin non può che constatare gli effetti distruttivi dello sviluppo economico e industriale sull'ambiente. L'ecologismo del filosofo francese non si nutre di decrescita, ma della convinzione che il potere della tecnostruttura sia sfuggito al controllo umano. Il problema è dunque quello di ricondurre la scienza e la tecnologia a finalità compatibili con l'ambiente e alla necessaria ridistribuzione della ricchezza, sia a livello locale che globale.
Dentro il mondialismo
Un ecologismo, dunque, non normativo né prescrittivo, perché sorretto da una visione della democrazia intesa come presa di parola di visioni del mondo e interessi divergenti con eguale legittimità. Nessun amore, quindi, per astratte procedure, ma adesione a una concezione «processuale» della democrazia, che assume tratti radicali, data l'incapacità della storica cultura politica del movimento operaio di fornire risposte all'insieme di problemi che il «mondialismo» pone. La crisi dello stato-nazione, certo, ma anche lo svuotamento del welfare state in nome di un individuo proprietario, figura idealtipica egemone del capitalismo contemporaneo. Una radicalità, quella di Morin, che corre il rischio di dissolversi in una semplice testimonianza di una alterità che non riesce a trasformarsi in un agire politico perché disincarna l'individuo sociale dalla materialità dei rapporti sociali dominanti. Morin indica cioè un metodo per affrontare la realtà contemporanea - un pensiero multidimensionale che mette sempre in discussione ciò che ha acquisito - ma rispetto alla risposta sul «che fare» si limita a una tassonomia delle esperienze di resistenza. Manca cioè quel doppio movimento dove l'interpretazione della realtà è già un atto per trasformarla.