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Serena Righini
Si scrive sviluppo, si legge deregulation
11 Ottobre 2011
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Bastano poche righe dei Decreti per lo Sviluppo del Governo per avviare una stagione di deregulation urbanistica, che toglierà agli enti locali la possibilità di guidare le trasformazioni del territorio

Carlo Donolo, nel suo libro Disordine. L’economia criminale e le strategie della sfiducia (Donzelli, 2001), definisce la deregolazione come “la correzione deliberata di un regime ritenuto iperregolato, quindi inefficiente e costoso”; poi aggiunge che “attori auto interessati sono inclini a sopravvalutare il peso delle regolazioni e a usarle come capro espiatorio di proprie incapacità o inefficienze. La deregolazione risulta vantaggiosa a breve per i singoli attori, ma tende a medio termine a danneggiare beni pubblici essenziali, a meno che non intervengano correzioni tempestive”.

Alla luce delle parole di Donolo è più semplice inquadrare alcune delle “innovazioni” contenute nel Decreto per lo Sviluppo, poi convertito in legge lo scorso luglio, (Legge12 luglio 2011, n. 106 - Prime disposizioni urgenti per l'economia), che sanciscono in pochi commi, peraltro scritti malamente, di fretta e variamente interpretabili, (la classe degli avvocati così ben rappresentata tra i banchi di questa maggioranza deve pur campare!), la condanna a morte dell’urbanistica intesa come pianificazione organica e complessiva di un territorio. Pur riconoscendo che la pianificazione territoriale in Italia non ha mai goduto di ottima salute, ora il rischio è che venga definitivamente archiviata in quanto pratica obsoleta e inadeguata per le esigenze di un mondo che cambia sempre più in fretta. Forse, più semplicemente, non appare idonea a soddisfare gli interessi delle lobbies che, con il supporto di una classe politica spesso connivente, l’hanno progressivamente trasformata in una catena di operazioni immobiliari fini a sé stesse, prive di qualunque politica di supporto territoriale o sociale in grado di valorizzare la dimensione pubblica della città.

Non si può prescindere innanzitutto da una critica agli stessi principi ispiratori, di una norma che insiste ad interpretare il tema dello sviluppo con le dinamiche della crescita edilizia, come se non fossimo mai usciti dalla fase del boom post-bellico e si dovesse ancora provvedere a garantire una casa a milioni di italiani. In questo modo la nostra classe politica, in particolare quella di governo, si rifiuta di ammettere che questi continui incentivi al mercato immobiliare consentono il proliferare di operazioni finanziarie che non porteranno nessuna qualità allo spazio urbano e al territorio, prolungheranno l’agonia di un sistema bancario fortemente esposto con il “mercato del mattone” e, in qualche caso non troppo sporadico, agevoleranno la crescita dell’economia illegale che fa capo alla criminalità organizzata, sempre più a suo agio tra cantieri e richieste di varianti ai piani regolatori.

Esaminando i contenuti formali della legge, si nota che un intero articolo è dedicato a nuovi istituti amministrativi e dispositivi. O meglio, all’eliminazione di quelli attuali, al fine di liberalizzare il settore dell’edilizia privata. Dato che la norma statale, in tema di urbanistica, deve limitarsi a indicare gli indirizzi, spetterà poi alle Regioni emanare le leggi di dettaglio, che comunque dovranno affrontare questioni come l’introduzione del “silenzio-assenso” per i Permessi di Costruire, lo sdoganamento della SCIA che sostituisce la DIA, l’introduzione del Permesso di Costruire in deroga, la riedizione del Piano Casa e la formalizzazione della forma contrattuale per la cessione di cubatura.

Proprio quest’ultimo strumento pare un ottimo grimaldello per scardinare l’impostazione della legge fondamentale del 1942 e sue successive modifiche, in particolare quanto sancito negli articoli 1 (“L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica sono disciplinati dalla presente legge”) e 3 (“La disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali”). L’introduzione del dispositivo contrattuale segna una svolta importante ed epocale: il contratto, nel nostro ordinamento giuridico, è l’accordo tra due o più soggetti per la negoziazione di un bene a cui si attribuisce un certo valore economico, quindi la capacità edificatoria, il volume realizzabile e non più solo il terreno, diventa merce di scambio e bene di libera commercializzazione. Tutte le negoziazioni di diritti edificatori dovranno essere registrate presso la Conservatoria (che avrà la funzione di comprovare la titolarità) e presso il Registro Comunale dei diritti edificatori, che documenterà l’attuazione di quanto previsto, sostituendo, di fatto il piano urbanistico comunale. Infatti i diritti edificatori possono essere generati dai Permessi di Costruire in deroga oltre che dai Piani Urbanistici comunali e potranno spostarsi in ambiti anche non omogenei, secondo l’istituto della perequazione.

In questo modo, non solo il settore edilizio, ma tutto il processo di pianificazione, diventerà di esclusiva competenza degli operatori privati, al pubblico restando poche armi per l’autotutela, e praticamente nessuna per garantire uno sviluppo organico ed equilibrato del proprio territorio. Ancora Donolo scrive che la “deregolamentazione deliberata viene ottenuta per lo più tramite la politica degli interessi e la pressione lobbistica. Deregolando si tiene perciò poco conto sia di interessi generali che di interessi diffusi”.

Avrà ancora senso parlare di Piani Regolatori Comunali? Che funzione avranno gli strumenti di pianificazione se grazie al ricorso del Permesso di Costruire in deroga si potranno realizzare modifiche alle destinazioni d’uso e spostare volumetrie edificatorie in altri ambiti della città? Amministrazioni comunali private di qualsiasi funzione di guida potranno ancora parlare di politiche per la città del futuro?

“Il condono? Roba da Repubblica delle Banane. Non possiamo certo pensare al condono per determinare le politiche di sviluppo”. Il liberismo immobiliare è meglio, ministro Calderoli?

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