Per Walter Benjamin la capitale dell’Europa era Parigi; per l’ironico e ostinato Robert Menasse dovrà essere Bruxelles. In questo modo il vincitore del
(premio letterario tedesco) formula un’esile speranza, temperata da una storiella divertente su una serata trascorsa con un giornalista tedesco in un fumoso caffè della capitale belga. Menasse racconta che il giornalista, dopo aver redatto un articolo per il suo giornale di Francoforte dalla lontana galassia di Bruxelles, se lo vide rimandato indietro con un’annotazione: «Non raccontare cose così complicate. Scrivi solo quanto costerà di nuovo a noi tedeschi».
Lo scarso interesse che i nostri politici, manager e giornalisti mostrano per la costruzione di un’Europa capace di iniziativa politica non potrebbe essere illustrato meglio. Da anni ormai una stampa timida e deferente corre in aiuto della classe politica tedesca, facendo di tutto per non tediare l’opinione pubblica col tema dell’Europa. La tendenza a infantilizzare il pubblico si è manifestata nel modo più evidente in campagna elettorale, con la rigorosa limitazione dei temi ammessi all’unico dibattito televisivo tra Merkel e Schulz. Del resto, già per tutto il decennio dell’ancora irrisolta crisi finanziaria, alla cancelliera e al suo ministro delle Finanze è sempre stato consentito di presentarsi, in stridente contrasto con i fatti, come veri “europei”.
Adesso compare sulla ribalta un politico come Emmanuel Macron, pieno di riguardi verso la cancelliera (ormai indebolita e incalzata dal suo stesso partito), ma capace di sollevare il velo sul compiaciuto autoinganno. Le menti “realiste” delle grandi testate tedesche sembrano temere le parole del presidente francese perché potrebbero aprire gli occhi al loro pubblico, mostrando che il re, con il suo robusto nazionalismo economico, è nudo. Nei primi capitoli di un recente libro con il sottotitolo Come la Germania mette a rischio un’amicizia, Georg Blume raccoglie una triste documentazione sul nuovo tono altezzoso della stampa e della politica tedesche nei confronti della Francia e dei francesi. I commenti su Macron oscillano tra indifferenza, arroganza e fuoco di sbarramento preventivo. E a parte un titolo dello Spiegel, anche la risonanza dell’ultimo così importante discorso del presidente francese (pronunciato il 26 settembre scorso alla Sorbona, e in cui Macron rilancia un’idea forte di Europa «sovrana, unita e democratica »,ndr) è stata scarsa o nulla.
Con questa materia, adatta per scrivere una commedia, la prossima coalizione di governo “Giamaica” (dai tre colori di Cdu, Fdp e Verdi) potrebbe imbastire una vera e propria tragedia, se, ad esempio, un ministro delle Finanze quale Christian Lindner divenisse l’esecutore testamentario di Schäuble. In un “non paper” scritto per l’Eurogruppo, il dimissionario ministro delle Finanze ha ideato un programma fatto apposta per bloccare ogni compromesso col presidente francese. Schäuble lega la creazione di un fondo monetario europeo alle sue idee ordoliberali volte a prevenire ogni temuta partecipazione democratica. In tal modo l’intero ordine economico-finanziario sarebbe sottratto alle decisioni politiche e rimarrebbe prerogativa di un’amministrazione tecnocratica.
Con questo sfogo potrei anche chiudere il mio discorso. Ma la situazione è troppo seria. Il prossimo governo tedesco dovrà raccogliere (sempre che qualcuno ne abbia voglia) la palla lanciatagli dal presidente francese e che sta ora dalla sua parte del campo. Basterebbe una politica del rinvio per sprecare un’occasione storica unica.
Raramente le contingenze storiche hanno creato una situazione così chiara come nel caso dell’ascesa al potere di questa personalità così fascinosa, forse irritante, ma in ogni caso fuori dal comune. Nessuno si sarebbe potuto aspettare che un ministro del governo Hollande, senza appartenenza di partito, potesse creare da solo, in modo apparentemente egocentrico, un movimento politico capace di capovolgere l’intero sistema dei partiti. Sembrava un’impresa contraria a ogni buon senso demoscopico.
Eppure una persona sola, senza seguito, è riuscita ad ottenere la maggioranza dei voti nel breve spazio di una campagna elettorale di coraggioso confronto, incentrata sull’approfondimento della collaborazione europea e opposta al crescente populismo di destra sostenuto da un francese su tre. Era davvero improbabile che un uomo come Macron potesse diventare presidente di un paese come la Francia, con una popolazione da sempre più euroscettica di quella lussemburghese, belga, tedesca, italiana, spagnola o portoghese.
Osservando le cose obiettivamente, però, è altrettanto improbabile che il prossimo governo tedesco abbia la lungimiranza di trovare una risposta costruttiva alla domanda posta da Macron. Per me sarebbe un sollievo se riuscisse almeno a riconoscere la rilevanza della questione. È già abbastanza difficile che un governo di coalizione segnato da tensioni interne abbia la volontà di rivedere le due scelte strategiche imposte da Angela Merkel all’inizio della crisi finanziaria: l’approccio intergovernativo, che assicura alla Germania un ruolo guida nel Consiglio europeo, e la politica dell’austerità, che la Germania ha potuto imporre ai Paesi del Sud dell’Unione, grazie a questa supremazia, assicurandosi vantaggi sproporzionati.
Ed è ancora più improbabile che questa cancelliera non adduca la scusa dell’indebolimento della sua posizione politica interna per spiegare al fascinoso contraente che purtroppo non può far propria la sua compiuta prospettiva di riforma. Del resto, le prospettive le sono state sempre estranee. Per altro verso – ed è questa la questione su cui mi interrogo – può questa personalità politica (che non ho mai conosciuto personalmente), figlia di un pastore protestante, così accorta e coscienziosa, finora favorita dal successo ma anche riflessiva, può essa avere un interesse a finire i sedici anni di cancellierato in questo ruolo inglorioso? Vuole davvero lasciare la scena politica dopo quattro anni di esitazioni ed erosione del potere? O saprà mostrare una vera statura e saltare oltre la propria ombra, a dispetto di tutti coloro che già speculano sul suo declino?
Anche lei sa che l’unione monetaria europea è d’interesse vitale per la Germania e che, sul lungo periodo, essa non può essere stabilizzata finché si approfondiscono le forti differenze tra le divergenti economie del Nord e del Sud dell’Europa in termini di reddito, tasso di disoccupazione e debito pubblico. In Germania, lo spettro dell’“unione di trasferimento” offusca lo sguardo su questa dinamica distruttiva. È possibile porvi rimedio solo se si crea una concorrenza davvero equa oltre le frontiere nazionali, e se si persegue una politica di contrasto alla crescente desolidarizzazione sia tra le popolazioni nazionali sia all’interno delle varie nazioni. Basti pensare alla disoccupazione giovanile. Macron non si limita a concepire una visione. Egli richiede concretamente che l’Eurozona vada avanti nell’armonizzare le imposte sulle imprese, in un’efficace tassazione delle transazioni finanziarie, nella graduale convergenza dei differenti regimi di politica sociale, nella costituzione di un pubblico ministero europeo per le regole del commercio internazionale, eccetera.
D’altra parte, non sono queste singole proposte, già note da tempo, a distinguere da tutto ciò a cui siamo abituati il comportamento, le iniziative e i discorsi di questo politico. Ciò che colpisce sono tre tratti caratteristici: - il coraggio nella costruzione politica; - l’impegno dichiarato di voler trasformare il progetto elitario europeo in un’auto-legislazione democratica dei cittadini; - il modo convincente di porsi di una persona che ha fiducia nella forza della parola che articola il pensiero.
Con una scelta lessicale molto francese, il 26 settembre scorso, il presidente si è rivolto a un pubblico studentesco, ma anche alla classe politica tedesca, evocando ripetutamente quella “sovranità” che oggi non può più essere garantita dallo Stato nazionale, ma solo dall’Europa. In un mondo a soqquadro, solo con la protezione e la forza dell’Europa unita i suoi cittadini possono difendere i propri comuni interessi e valori. Macron fa valere la sovranità “autentica” contro quella chimerica dei “sovranisti” francesi, denuncia il gioco indegno dei governi che a casa prendono le distanze dalle leggi che essi stessi votano a Bruxelles, e non teme di invocare la rifondazione di un’Europa capace di agire sia al proprio interno che verso l’esterno.
Con “sovranità” si intende questo rafforzato potere che i cittadini europei danno a se stessi. Quali passaggi da compiere verso un’istituzionalizzazione della capacità di iniziativa politica comune, Macron indica una collaborazione più stretta nell’Eurozona a partire da un bilancio comune. La proposta cruciale e dibattuta è la seguente: «Un (tale) bilancio può andare di pari passo solamente con una guida politica forte, un ministro comune e un controllo parlamentare esigente a livello europeo. Soltanto la zona euro con una moneta internazionale forte può fornire all’Europa il quadro di una potenza economica mondiale».
Con la pretesa di intervenire politicamente sui problemi di una società mondiale che cresce sempre più interdipendente, Macron si distingue, come solo pochi altri, dal ceto dei funzionari politici cronicamente non all’altezza dei problemi, opportunisticamente omologati e ridotti alla politica del giorno per giorno. Non si crede ai propri occhi: c’è davvero ancora qualcuno che vuole modificare lo status quo? Esiste ancora chi ha il coraggio sconveniente di opporsi alla coscienza fatalista dei fellahin ciecamente subalterni alla presunta forza coercitiva degli imperativi sistemici di un ordine economico mondiale personificato da organizzazioni internazionali distaccate e altezzose? Se ho bencompreso, Macron fa valere un interesse che, sino ad oggi, nei nostri sistemi partitici, stretti tra il neoliberalismo ordinario del “centro”, l’anticapitalismo appagato dei nazionalisti di sinistra e la stantia ideologia identitaria dei populisti di desta, non è stato sufficientemente analizzato né, di conseguenza, rappresentato. Una parte dell’insuccesso dei socialdemocratici è dovuto al fatto che la loro politica, in linea di principio aperta alla globalizzazione, propulsiva sui temi europei e, al contempo, attenta ai danni e alle distruzioni sociali provocate da un capitalismo sfrenato; questa politica, che coerentemente spinge per una necessaria riregolazione trasnazionale dei mercati, nonostante gli sforzi di Sigmar Gabriel non ha acquisito un profilo riconoscibile. Lo spazio di azione per attuare una tale politica, Gabriel avrebbe potuto ottenerlo solo come ministro delle finanze di una rinnovata Große Koalition, bendisposta nei confronti di Macron.
La seconda circostanza che distingue Macron dalle altre figure è la rottura di un tacito consenso. Sinora, la classe politica ha dato per scontato che l’Europa dei cittadini fosse un costrutto troppo complesso e la finalité – lo scopo dell’Unione europea – una questione troppo complicata perché i cittadini potessero occuparsene direttamente. Le attività correnti della politica di Bruxelles sono cosa per esperti o, semmai, per lobbisti ben informati, mentre i capi di governo sono impegnati a rimandare o eludere i problemi più gravi tra gli interessi nazionali in conflitto. Ma, soprattutto, i partiti politici sono unanimi nella volontà di evitare i temi europei nelle elezioni nazionali, a meno che non si presenti l’occasione di addossare ai burocrati di Bruxelles i problemi domestici. E ora Macron vuole fare piazza pulita di questa mauvaise foi. Un tabù lo ha già infranto mettendo al centro della campagna elettorale la riforma europea, e persino vincendo, un anno dopo la Brexit, questa offensiva contro «le passioni tristi dell’Europa».
È nota la formula secondo la quale la democrazia è l’essenza del progetto europeo. Detta da Macron essa acquista credibilità. Non sono in grado di giudicare l’attuazione delle riforme politiche annunciate in Francia. Si dovrà vedere se egli manterrà la promessa “social-liberale” di assicurare il difficile equilibro tra la giustizia sociale e la produttività economica. Come uomo di sinistra non sono un “macroniano” – sempre che esista qualcosa del genere. Ma il modo in cui egli parla dell’Europa fa la differenza. Macron chiede considerazione per i padri fondatori che hanno creato un’Europa senza popolazione perché allora erano esponenti di un’avanguardia illuminata.
Lui però adesso vuole fare di quel progetto elitario un progetto di cittadinanza e, contro i governi nazionali che nel Consiglio europeo si bloccano a vicenda, chiede che si compiano dei passi chiari verso l’autodeterminazione democratica dei cittadini europei. Così egli rivendica per le elezioni non solo un diritto di voto, ma anche la designazione di candidati appartenenti a liste transnazionali. Ciò favorirebbe, in effetti, la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non può divenire un luogo in cui gli interessi sociali possono essere generalizzati e valorizzati oltre i meri confini nazionali.
Se vogliamo valutare correttamente l’importanza di Emmanuel Macron è necessario considerare anche un terzo aspetto, una qualità personale: sa parlare. Non si tratta solo di un politico che riesce a guadagnarsi l’attenzione, la stima e il potere grazie alla capacità retorica e a una certa sensibilità verso la parola scritta. È piuttosto la scelta precisa delle frasi ispiratrici e la forza di articolazione del discorso a conferire allo stesso pensiero politico acume analitico e una prospettiva lungimirante. Da noi, Norbert Lammert è stato l’ultimo a richiamare alla memoria i dibattiti al Bundestag di Gustav Heinemann, Adolf Arndt e Fritz Erler agli albori della Repubblica federale. Naturalmente la qualità della professione del politico non si misura dal talento oratorio. Tuttavia, i discorsi possono cambiare la percezione della politica nella sfera pubblica, elevarne il livello e ampliare l’orizzonte del dibattito pubblico, migliorando inoltre la qualità non solo dei processi di formazione della volontà politica, ma anche dello stesso agire politico.
In un mondo dove l’assenza di forma dei talk show diventa il metro di riferimento per la complessità e lo spazio del pensiero politico pubblicamente ammesso, Macron si distingue per lo stile dei suoi interventi. A quanto pare ci manca la capacità di percepire tali qualità, e di collocare il quando e il dove di un discorso. Ad esempio, quello tenuto di recente da Macron al Municipio di Parigi in occasione delle celebrazioni per la Riforma è interessante non solo nel contenuto. Si è trattato di un abile tentativo di utilizzare lo sguardo retrospettivo sulla storia delle lotte confessionali in Francia per adattare una dottrina di Stato – il severo laicismo francese – alle istanze di una società pluralistica. Ma l’occasione e l’argomento del discorso erano anche un gesto di apertura verso la cultura protestante del Paese confinante – e verso la collega di confessione evangelica a Berlino. Naturalmente, la pretesa e lo stile con cui viene rappresentato il potere dello Stato ci sono divenuti estranei, al più tardi dallo sguardo nostalgico di Carl Schmitt sul contro-illuminismo francese del XIX secolo. Può darsi che ci manchi quel senso della gravitas di una vita nel palazzo dell’Eliseo che Macron onora nel colloquio avuto con loSpiegel. Ma la conoscenza più intima della filosofia hegeliana della storia, con cui reagisce alla domanda su Napoleone come «spirito del mondo a cavallo», è comunque di grande effetto.
Questo articolo è apparso su Der Spiegel del 21 ottobre 2017 © Jurgen Habermas Traduzione di Walter Privitera e Fiorenza Ratti