La Repubblica, 25 gennaio 2015
A CHI qualche mese fa domandava se dopo la condanna per frode fiscale emessa dalla Cassazione con sentenza definitiva Silvio Berlusconi era da considerarsi ormai fuori dal gioco politico, le risposte di quanti si occupano di queste cose come osservatori imparziali erano quasi tutte affermative: sì, ormai è fuori, è politicamente finito e non solo per la condanna ma perché delle promesse fatte e degli impegni presi con gli elettori fin dal 2001, non c’è alcuna traccia. Ha puntato sulle debolezze e la faciloneria degli italiani e non sulle loro virtù; li ha diseducati col suo esempio. Personalmente davo anche io questa risposta.
Sono passati quattordici anni da allora. La parte della risposta che riguarda la diseducazione politica e morale data da Berlusconi resta ferma, ma lui non è affatto finito. Anzi. L’accordo con Renzi da lui gestito con grande abilità, l’ha rimesso in piedi, gli ha ridato un compito importante, è allo stesso tempo all’opposizione e nella maggioranza. Ancora non è al governo, ma tra poco ci sarà.
Il partito della nazione è ormai sbocciato e lui ne fa parte integrante. Renzi — Berlusconi l’ha detto e lo ripete — è il suo figlio buono, ben riuscito. Lui è il papà, scavezzacollo come tanti padri ma pur sempre il padre che vede il figlio diventato il primo della classe, che da lui ha preso il talento di incantare la gente. E dici poco.
È pur vero che nel frattempo Forza Italia è diventata una sigla e il partito non c’è più, ma a guardar bene quel partito non c’è mai stato, nacque come la proiezione politica della sua società pubblicitaria
Ha tenuto un solo congresso, tutto è stato sempre deciso dal “boss” e dal suo “cerchio magico”, variabile secondo gli umori del Capo. Adesso è fatto da un paio di signore bellocce, molto legate a sua figlia Marina, ma è sempre lui che decide applicando la sua tecnica: prometti mille e — ben che vada — realizzi dieci e ogni giorno cambi posizione, poiché sei un bersaglio ti sposti per non esser colpito.
Adesso lui vuole tre cose: che questa legislatura duri fino al 2018 perché le elezioni oggi lo farebbero sbattere contro un muro; che la sua alleanza con Renzi sia il perno intorno al quale gira tutto il resto; che lui sia riconosciuto come il Padre della Patria e possa quindi ricevere quella clemenza che gli ridia piena agibilità politica e partecipazione personale, elezioni comprese se a lui piacerà di farle. E Renzi che ne dice?
Naturalmente anche il Pd, che però è un vero partito, ora è spaccato in due e forse in tre parti. L’elezione del presidente della Repubblica sarà da questo punto di vista decisiva. Mancano cinque giorni a quell’appuntamento. Renzi deciderà con il partito o con Berlusconi? Ancora non si sa; secondo lui è la direzione che deve decidere o addirittura l’assemblea (una sorta di comitato centrale molto numeroso). Ma sono organi dominati dal leader. I gruppi parlamentari? Anche lì la maggioranza è renziana. Quindi Renzi è in quelle sedi che proporrà il nome da votare. E ancora una volta vincerà.
Tuttavia c’è un ostacolo: la minoranza si considera come un coniuge che convive con l’altro da “separato in casa”. Quello che si decide nelle sedi istituzionali del partito non può sostituirsi alla convivenza dei due separati. Debbono decidere in due, non in trecento. E poi, nel “plenum” parlamentare vige il voto segreto e ancora poi i renziani furono tra i centouno che silurarono Prodi. Perciò la partita del nome è tutta da giocare e se per caso, fin dalla prima votazione, ci fosse un pacchetto di cento voti per Prodi, sarebbe difficile che il partito rifiutasse quel nome e comunque molti che oggi sono con Renzi potrebbero cambiar posizione. Non avverrà, dipende anche da Grillo, ma insomma non si può escludere.
Solo Draghi ha precisato: riforme economiche che riguardano soprattutto la produttività. La sola che può far ripartire la crescita, gli investimenti, i consumi e l’occupazione.
La manovra monetaria è un grande aiuto per Renzi e Draghi, con prudenza, scommette sul coraggio del presidente del Consiglio. Ma non è una riforma semplice da attuare perché deve stare attento a non gravare sui salari dei lavoratori perché in quel caso si troverebbe a fare i conti con i sindacati. Tutti i sindacati, Cisl compresa. Personalmente credo che si cimenterà mettendo insieme rapidità (il turbo) e coraggio. Non gli mancano né l’uno né l’altro. C’è comunque uno stretto intreccio tra il nome scelto per il capo dello Stato e la riforma del lavoro (che non è il “Jobs Act”). Deve aver l’accordo dei sindacati e dei “separati in casa”. Ma molto dipende dalla scelta del primo inquilino del Quirinale. Non può essere un tecnico né un pupazzetto (o una pupazzetta) di Renzi. Deve essere un uomo politico di provata esperienza e autorevolezza, che interpreti con necessario vigore i poteri-doveri che le sue prerogative gli garantiscono e che abbia un prestigio all’estero e anche nel partito socialista europeo.
Non sono molti i nomi che corrispondono a questo identikit. I nomi è sempre rischioso farli ma forse un osservatore che si sforzi di essere oggettivo può indicarne qualcuno. Io ne vedo tre: Prodi, Veltroni, Amato. Altri nomi egregi tra i tanti dei quali in questi giorni si è parlato, certamente ci sono, ma sono poco conosciuti sia nel partito sia all’estero e quindi sembrano meno adatti e scatenerebbero i fuochi dei franchi tiratori. Nessuno ama vederli all’opera ma tutto dipende dalle scelte di Renzi. Se sceglie bene, i franchi tiratori non ci saranno e sarà merito suo. Se sceglie male sarà sua la colpa. *** Concludo con qualche cenno sull’Europa.
La manovra monetaria di Draghi, con il 20 per cento di condivisione dell’intervento sui mercati della Bce, pone il tema dei bond europei e del bilancio comune dell’Unione. Faccio osservare un aspetto che non viene mai ricordato e che invece dovrebbe avere un notevole peso: un articolo del trattato di Lisbona stabilisce esplicitamente che l’Unione europea deve avere una sua realizzazione politica, ottenuta con le necessarie cessioni di sovranità dei governi nazionali.
Perché quell’articolo non viene mai tenuto presente? Esso implicherebbe un bilancio comune, un fisco comune, una politica estera comune, una presenza permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e un debito sovrano comune, un Parlamento votato in comune dagli elettori europei.
Spetta soprattutto alla Germania assumere l’iniziativa di questo sogno e il rispetto del trattato di Lisbona ma spetta ai governi di tutti i membri dell’Ue di obbligare la Germania a prendere l’iniziata o a prenderla senza di lei.
Il vero guaio è che i capi dei governi non amano affatto cedere una parte rilevante della loro sovranità. Questo fa paventare il peggio per un futuro molto e molto prossimo: in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. I coraggiosi, caro Renzi, debbono mostrare su questo tema il loro coraggio ma finora nulla si è visto e semmai si è visto il contrario. Alla fine voi personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa. È questo che volete? La via europea è estremamente importante e bisogna percorrerla. Noi non siamo gufi, ma contro i mercanti che rivendicano i loro interessi perfino Gesù prese il bastone.