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Manuel Orazi
Sguardi pessimisti di Leonardo Benevolo sul futuro della città
31 Agosto 2011
Recensioni e segnalazioni
La recensione di un libro sulla crisi della città ricco di spunti e ricordi utili al dibattito di oggi.il manifesto, 31 agosto 2011

Suonano piuttosto pessimisti, se non millenaristi, i titoli di tre saggi tascabili di argomento architettonico, pubblicati quest'anno da Laterza: Senza architettura. Le ragioni di una crisi di Pippo Ciorra; L'Anticittà di Stefano Boeri; e La fine della città, il libro-intervista di Francesco Erbani a Leonardo Benevolo, che si aggiungono a Città senza cultura di Giuseppe Campos Venuti uscito lo scorso anno. Se Ciorra e Boeri trovano ancora spiragli di miglioramento possibili e addirittura qualche connotazione positiva alla condizione urbana attuale, Benevolo è senz'altro più pessimista e, dall'alto dei suoi ottant'anni, in fondo rassegnato. Così, infatti, conclude il suo libro: «La distruzione del paesaggio italiano non è stato un fatto casuale o un risultato dell'incuria: è stata pagata in contanti. L'ammontare di questo esborso lo vediamo ristagnare nell'economia del nostro paese e lo riconosciamo nel prevalere del comparto finanziario rispetto a quello industriale, della rendita rispetto al profitto d'impresa». In effetti, lungo tutta la sua lunghissima carriera, Benevolo ha sempre tentato di proporre una azione riformatrice, che mettesse la pianificazione urbana al suo centro. Pur essendo noto all'estero soprattutto come storico dell'architettura, la città in generale e l'urbanistica in particolare restano il fuoco vivo della sua opera, che venne inaugurata, non a caso, nell'alveo dell'azione apartitica olivettiana.

I problemi maggiori che Benevolo ha incontrato sono sempre stati di natura politica, specie nelle sue esperienze professionali migliori, come quella del sodalizio con il sindaco della sinistra Dc di Brescia, Luigi Bazoli. Erano gli anni '70 e in alcune amministrazioni rosse e no del nord Italia sembrava possibile una gestione sociale di mercato dell'urbanistica, qualcosa di diametralmente opposto, per fare un solo esempio, alla deregulation abusivo-speculativa romana. Del resto, furono gli stessi partiti che le avevano promosse a mettere fine a quelle esperienze: esperienze irripetibili, a vederle con il senno di poi. Le pagine forse più efficaci del libro di Benevolo sono quelle in cui la biografia dell'autore si mescola a quella del nostro paese, attraversando gli snodi e le empasse principali del dopoguerra, dalla ricostruzione ancora in mano agli ex accademici fascisti (Piacentini, Aschieri e altri) ai piani Ina Casa, alla mancata riforma Sullo per il regime dei suoli (un po' mitizzata in verità), al '68 e all'università di massa (clamorose le dimissioni per protesta di Benevolo e Bruno Zevi da docenti universitari a metà anni '70). In particolare, il racconto delle esperienze di Benevolo relative ai piani di Roma, Brescia, Urbino, Palermo e Venezia si intrecciano inevitabilmente con le fasi politiche del primo centrosinistra, del compromesso storico, della lotta alla mafia, di Mani pulite, dell'insorgere dei localismi, per fermarsi a Berlusconi, peraltro mai citato. Ma quel che più interessa è che tutti questi passaggi della nostra contemporaneità vengono rivisitati da un punto di vista poco frequentato dagli storici: quello, appunto, degli uffici tecnici e degli assessorati dell'urbanistica dei comuni, campi di battaglia degli interessi locali.

Per certi versi, Benevolo ha sempre vissuto in prima linea questo speciale tipo di scontri fra interessi che, in «un paese fondato sulle rendite» (copyright dell'economista Geminello Alvi, non certo comunista), non poteva se non minare alle fondamenta l'unica pratica di contenimento a quegli stessi interessi che è appunto l'urbanistica. La fine della città che compare nel titolo del libro non è altro se non la paventata fine dell'urbanistica, una battaglia che si combatte ancora ogni giorno, dappertutto.

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