L’articolato presentato a luglio 2014 dal Gruppo di lavoro “Rinnovo urbano” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sembra ispirato da una vera e propria furia iconoclasta (v. in particolare art. 6, c. 6) nei confronti della tradizione di strumenti e procedure consolidatesi tra il 1967 con la L. 765/67 (c.d. Legge Ponte) e conseguente D.M. n. 1444/68 ) e il 1977 con la L. 10/77 (“Norme per la edificabilità dei suoli”, c.d. Legge Bucalossi) e sembra invece porsi come obiettivo il ritorno istituzionalizzato al “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali che, negli anni Cinquanta-Sessanta caratterizzò, anche dopo la fase di ricostruzione emergenziale delle distruzioni belliche, il periodo di renitenza da parte dei comuni a dare seguito al compito di indirizzo del processo urbanizzativo con modalità di valorizzazione economica compatibili con gli interessi pubblici e collettivi, compito loro attribuito dalla L.
n. 1150/42 (“Legge urbanistica”).
Non è, infatti, casuale che alle forme di partecipazione socialmente qualificata previste dal testo tuttora vigente della “Legge urbanistica” (art. 9, c. 2: «...possono presentare osservazioni le associazioni sindacali e gli altri enti pubblici ed istituzioni interessate».) o anche alla prassi instauratasi per estensione del disposto del c. 1 (nel periodo di pubblicazione dei piani urbanistici «chiunque ha facoltà di prenderne visione») per consentire a chiunque la facoltà di presentare osservazioni (e, tuttavia, la proprietà fondiario-immobiliare che usi di questa facoltà ha la necessità di rivestire la tutela del proprio interesse proprietario – giuridicamente tutelato dalla forma dell’opposizione - di qualche forma di cointeressenza pubblica se vuole sperare di trovare accoglimento) il testo proposto sostituisca la tutela pressoché esclusiva e preminente della partecipazione “proprietaria” (art. 1, sub i: «leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni e tra queste ultime e i privati nella definizione e attuazione degli strumenti di pianificazione»; art. 1 c. 4: «Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale. Le procedure di pianificazione assicurano la partecipazione dei privati anche nell’esecuzione dei programmi territoriali senza dar luogo a sperequazioni tra le posizioni proprietarie»; art.7, c. 7: «7. Nell’ambito della formazione del piano operativo, i privati, singoli o associati, possono presentare proposte per operazioni di trasformazione urbanistica di maggiore complessità funzionale, gestionale ed economico – finanziaria. Le proposte, corredate da progetti di fattibilità, si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi»; art. 8, Tutela della proprietà ed indifferenza delle posizioni proprietarie, c. 1, 2, 3 e 4:
«3. I limiti alla proprietà privata, necessari alla programmazione territoriale, sono giustificati dagli obiettivi sociali della programmazione e realizzano una migliore accessibilità al diritto di proprietà
«4. Le limitazioni apposte alla proprietà privata che non hanno carattere generale e che non riguardano in generale una categoria di beni economici sono compensate. La compensazione rende indifferente le limitazioni»), mentre scompare del tutto la partecipazione socialmente connotata, del tutto equiparata a quella dei generici “privati”.
Altrettanto si potrebbe riflettere sull’opportunità di porre a carico dei Piani Attuativi (e forse, monetizzandole, anche a carico dei permessi di edificare diretti) le aree corrispondenti ai 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali, di cui all’art. 4 p. 5 del DM 1444/68, oggi disegnati nei Piani Regolatori e in gran parte inattuati e a vincoli decaduti, che sono spesso all’origine di fantasiose e per lo più inefficaci ipotesi di compensazioni perequative che si risolverebbero in aggravamento dei pesi insediativi sulle aree edificabili. Si porrebbero così limiti al consumo edificatorio del territorio ben più efficaci di qualunque limitazione imposta dall’esterno al processo urbanizzativo.
Anche il combinato disposto degli artt. 8 c. 2, art. 7 c. 2 e art. 9 del DM 1444/68 (è opportuno leggerli in questa sequenza per comprenderne bene il meccanismo) meriterebbe una più attenta valutazione alternativa alla brutale proposta di soppressione. Il senso di quegli articoli potrebbe esplicitarsi così : "Se un Piano Attuativo realizza interamente i propri spazi pubblici prescritti dallo strumento pianificatorio generale, esso può proporre un proprio modello insediativo caratterizzato da altezze, distanze tra edifici e densità fondiarie liberamente determinate dalla proposta di progetto; viceversa se gli spazi pubblici non vengono realizzati interamente all'interno del Piano (cioè in gran parte monetizzati o ceduti fuori comparto, e quindi si tratta - al di là della forma - un "non –piano attuativo", assimilabile ad un intervento a permesso edificatorio diretto) le altezze e le densità devono essere stabilite per analogia con quelle degli edifici dei tessuti urbani circostanti e preesistenti e la distanza tra gli edifici é prefissata per legge (ad es. pari all'altezza dell'edificio più alto) con un minimo assoluto". Che questo minimo debba essere quello di 10 m. come disposto dall’art. 9 p. 2 del DM 1444/68 (disposto che, voglio ricordarlo, ha superato indenne i numerosissimi ricorsi amministrativi che gli si sono rivolti contro) è questione che può anche essere discussa. Certo il ritorno alle disposizioni previste dal Codice civile (1,5 m. dal confine di proprietà, con la conseguente distanza minima tra pareti esterne di edifici di 3 metri), mi sembrerebbe segnare un ritorno a periodi oscuri (in tutti i sensi!), di cui non so se il Gruppo di lavoro intenda davvero e consapevolmente assumersi la responsabilità di proposta, implicita nell’abrogazione del DM medesimo.
Da ultimo la questione della fissazione di una dotazione minima di spazi pubblici a livello nazionale: i 18 mq/abitante (con l’abitante stimato a 30 mq s.l.p. o 100 mc lordi “salvo diversa dimostrazione”; art. 3, c.3) furono stabiliti empiricamente sulla base di esempi giudicati positivamente dal Gruppo di lavoro diretto da Martuscelli; gran parte delle legislazioni regionali susseguitesi tra il 1975 (Lombardia) e il 1999 (Basilicata) stabilirono maggiori dotazioni tra 24 e 28 mq/abitante. Per quanto la crisi economica morda ferocemente sembra difficile credere che regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto che amano paragonarsi per reddito e qualità della vita alle regioni europee più sviluppate non ritengano più garantibile ai propri cittadini ciò che si riteneva perseguibile negli anni Settanta e l’intero Paese ciò che riteneva proponibile nel 1968. Ma, al di là del dato quantitativo, ritengo sia opportuno mantenere un livello minimo garantito a livello nazionale per evitare che si manifestino eccessive disparità di trattamento tra i cittadini del Paese. Anche in questo caso la brutale soppressione del DM farebbe venir meno quel minimo di garanzia, potendo dare origine a corse “al ribasso” con finalità di concorrenzialità economica e a danno della qualità insediativa.
Quanto alla proposta di inserire la dotazione di edilizia economico-popolare (o sociale come preferisce l’entourage di provenienza del ministro Lupi: non a caso la proposta è un’inveterata aspirazione di taluni ambienti politico-sociali lombardi) tra le aree a destinazione pubblica o di interesse pubblico: comunque anche in questo caso occorrerebbe stabilire una quota minima nazionale rispetto alle quantità edificatorie programmate dai piani operativi (il 40% come disposto dalle mai abrogate, ma totalmente disattese, L. 167/62 e 865/71? Altre diverse quote?) per evitare eccessive disparità e le aree destinate ad attuarle devono essere aggiuntive a quelle per i servizi pubblici di zona e generali di cui sopra.