«Se si eccettua il pericolo di una guerra nucleare, la questione dell'ambiente è la minaccia più grave per il mondo». Il solito ambientalista rompiscatole, catastrofista e anche un po' menagramo? No. John Kenneth Galbraith. Sono parole che affidò al mio microfono nella sua bella casa di Boston il 31 gennaio 1991. Tema dell'intervista: la posizione della scienza economica di fronte alla crisi ecologica planetaria. Tema su cui intendevo fare un libro, e che andavo proponendo a un buon numero di economisti di grande prestigio (ben sei Nobel tra gli altri) spesso ricevendone reazioni quanto mai stupite: «Ambiente? Ma io sono un economista», fu ad esempio la prima risposta di Milton Friedman. Lui no. Mi fissò immediatamente una data. E subito, dal primo scambio di battute, fu evidente che, a differenza dei suoi colleghi, riteneva la materia tutt'altro che estranea agli interessi specifici della sua disciplina, e che già aveva considerato l'incompatibilità del modello economico attivo in tutto il mondo con la salvaguardia degli equilibri naturali.
In anni in cui, eccettuati i padri della bioeconomia (Georgescou-Roegen, Boulding, Daly, e pochissimi altri) tutti gli economisti opponevano il più reciso rifiuto anche ad accettare la discussione sulla crescita, lui già con piena consapevolezza parlava degli «effetti negativi della crescita sull'ambiente», e della necessità anzi del dovere dell'Occidente di rivedere il proprio stile di vita e di ridurre drasticamente i livelli di consumo. Aggiungendo - da sperimentato conoscitore del Sud del mondo, e sdegnato testimone del suo sfruttamento - che sarebbe indecente pretendere dai poveri un'attenzione all'ambiente che noi stessi non abbiamo. «Tocca a noi», ripeteva convinto, e - da severo antesignano della critica al consumismo - notava che dopotutto anche noi ne avremmo tratto vantaggio.
Per concludere con una affermazione che al momento chiosò come «fuori tema»: «Il capitalismo è una macchina inbattibile nel produrre ricchezza, ma assolutamente incapace di distribuirla decentemente». Io osservai che non mi pareva un discorso tanto fuori tema. Rispose con un gesto, come a dire: lasciamo perdere.
Sul problema, a differenza della grande maggioranza degli economisti, aveva riflettuto seriamente, e ne vedeva tutta la complessità: ciò che - diceva - avrebbe richiesto da parte di ciascun paese un'impegnata analisi della propria situazione ecologica, non solo per un adeguato trattamento dei rifiuti, quelli nucleari in orimis, un severo sistema di tassazione di ogni tipo di inquinamento, decisi interventi fino alla proibizione delle industrie più inquinanti, e così via. Soprattutto si rendeva conto di qualcosa di cui ancora oggi anche gli ambientalisti più qualificati raramente sembrano avvertiti. Non bastano i provvedimenti dei singoli paesi, diceva: «Ciò che manca finora, e che la situazione urgentemente richiede, è una politica globale». E citava il buco nell'ozono, le piogge acide, l'effetto serra, fenomeni che riguardano l'intero pianeta, che si manifestano sovente agli antipodi del luogo in cui se ne producono le cause, che esigono pertanto una strategia sovranazionale, che solo «un'autorità globale» può affrontare in modo adeguato. E parlò perfino (cosa allora presa in esame solo da pochi specialisti) dell'assurda contabilizzazione del Pil: «Computare in positivo il valore dell'acciaio prodotto e non il valore negativo degli scarichi inquinanti provenienti dall'acciaieria, è un modo ingannevole di fare i conti». E aggiunse, quasi commovendomi: «Inoltre il Pil omette molte cose importanti: ad esempio l'enorme contributo che proviene dal lavoro delle donne».
Continuò a parlare a lungo, senza più bisogno di sollecitazioni, quasi riflettendo ad alta voce, mentre nel pomeriggio invernale scendeva il buio sui boschi che circondavano la casa. Era chiaro che la sua attenzione al problema era dovuta anche a una sorta di aristocratica sofferenza di fronte al deterioramento estetico dell'ambiente, a «quel particolare tipo di polluzione che non lede la salute, ma offende chiunque abbia sensibilità alla bellezza del paesaggio, che deriva dall'uso incontrollato del territorio, dalla manomissione delle campagne», senza dire dei monumenti antichi «oggi gravemente a rischio». L'Italia per esempio, disse: «Era molto più bella quando la visitai le prime volte, tanti anni fa». Nel coro elogiativo che ha commentato qualche giorno fa la sua morte nessuno ha notato la sua attenzione alla crisi ecologica. Ma la cosa non stupisce.