Il manifesto, 1º aprile 2015
L’appello è presto fatto: ci sono tutti ma proprio tutti a festeggiare i cent’anni di Pietro Ingrao. Come una riunione di famiglia, certo. Ma la famiglia è grande, allargata, cent’anni di storia d’Italia. «Lui non ha potuto portare il carico dei suoi anni qui con noi», spiega Mario Tronti.
Ma gli Ingrao sono tanti, composti ed emozionati, quattro generazioni, dalla sorella Giulia, ai figli Celeste, Bruna, Renata, Chiara e Guido fino ai loro nipoti. Non basta la Sala della Regina della Camera, così l’incontro intitolato ’Perché la politica’ «senza punto interrogativo», spiega la presidente Laura Boldrini, si sposta nella sterminata aula dei gruppi parlamentari. Le prime file sono per gli Ingrao, gli amici e i presidenti della Repubblica Mattarella e Napolitano.
Dietro di loro le sinistre diverse che però tutte (o quasi) non possono non dirsi ingraiane, almeno per gratitudine, per aver imparato da lui la pratica del dissenso e quella del dubbio.
Nei banchi, Sua Maestà il Caso scompone e ricompone la storia del Pci-Pds-Ds-Pd in nuove curiose sequenze: Occhetto l’uomo della Svolta accanto a Luciana Castellina fondatrice del manifesto, Aldo Tortorella il comunista democratico padre dell’associazione per il Rinnovamento della sinistra accanto all’ex premier Massimo D’Alema che due settimane fa ha proposto una nuova omonima associazione. L’ex presidente del senato Mancino accanto ai colleghi ex della camera Violante e Bertinotti, a seguire Gennaro Migliore, l’ultimo (per ora) a guidare un frammento di sinistra in una simil scissione, onore alle vecchie abitudini; l’ex governatore Bassolino con la pasionaria antirenziana Pollastrini, a sua volta accanto al pacato capogruppo Pd Speranza; il migliore dei miglioristi Macaluso con l’ingraiano Tocci, l’asorrosiano Asor Rosa e il civatiano Corradino Mineo. La ditta Bersani&Epifani con la prodiana Zampa. Il leader della Fiom Landini, inseguito dalle telecamere, accanto a Mussi, alla giovane eurorinfondarola Eleonora Forenza e al dc Gerardo Bianco. Sparsi per la sala il sindaco di Roma Marino, Anna Finocchiaro, Ugo Sposetti, parlamentari di Sel, Valentino Parlato, tanti giornalisti anche di giornali chiusi (come l’Unità che Ingrao diresse dal ’47 al ’57, riaprirà il 25 aprile). Menzione speciale per tutte le minoranze Pd, Fassina, Cuperlo, D’Attorre, Damiano, Civati, reduci dal ring della direzione, la sera prima: iniziata con un commosso applauso a Ingrao, l’uomo del dissenso, finita con porte sbattute e un voto bulgaro.
Tutti presenti, indovina chi non c’è? Non c’è il premier, né il governo, neanche un giovane ministro inviato per buona creanza. C’è, sì, la sottosegretaria Amici, ma non vale, è dalemiana. E c’è di meglio, anzi non c’è: non c’è un renziano, eccezion fatta per il neofita Migliore, che però viene dal giro del Prc, il partito dove alla fine Ingrao approdò. Né un giovane turco, quelli della maglietta di Togliatti, un tempo guardiani non di un’ortodossia mai conosciuta ma almeno di una qualche idea di partito. Il presidente Matteo Orfini spiega l’assenza con la consueta polemica verso ’gli anarchici’ della sinistra interna: «Ci hanno detto che dovevamo restare in aula a votare il decreto antiterrorismo. Io sono tenuto a seguire le indicazione del gruppo. Come dovrebbero fare tutti».
Ci fosse stato, Renzi avrebbe ascoltato Alfredo Reichlin, proprio il Reichlin che ha coniato la renzianissma formula «partito della nazione» raccontare di come Ingrao all’XIesimo congresso (del ’66) abbia proclamato «il diritto a manifestare pubblicamente il dissenso» e nel Pci di sessant’anni fa come «abbia rotto quel vincolo quasi sacrale in base al quale il vertice del partito si presenta unito all’esterno».
E la lezione del ’professorone’ Gustavo Zagrebelsky sul carteggio Ingrao-Bobbio, divisi su tutto ma uniti sul timore di una democrazia che non partecipa e si trasforma «in un elenco di elettori». Fino allo scritto di Rossana Rossanda letto da Maria Luisa Boccia (femminista, ingraiana e curatrice con Alberto Olivetti del nuovo Coniugare al presente), che torna sulla scena dell’intervento dell’XIesimo congresso, «accolto con un’ovazione finché però la platea non si accorse dell’accoglienza glaciale da parte della presidenza».
Per tre ore si parla di Ingrao, appunto, ’coniugato al presente’. Fino all’ultimo «non ci sto», dopo l’89 che invita, spiega lo storico Leonardo Paggi, «alla ricostituzione di una sinistra critica», a «tornare nel gorgo con la forza ragionata di un programma, senza l’attesa di un mitico quanto improbabile leader», oggi che siamo in presenza «di un attacco frontale ai diritti del lavoro e alla democrazia parlamentare». A questo programma «dovrebbero attendere quanto prima le forze che sentono un legame con la vita di Ingrao».
Ecco, appunto: Renzi non c’è perché il Pd di Renzi ha reciso quel legame. «Un finale impetuoso, un appello infuocato», scherza ma anche no D’Alema, avviandosi all’uscita. Presidente, ha visto?, Renzi non c’era. D’Alema non resiste alla battuta: «Chi?