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Jean Paul Fitoussi
Se torna l’etica nel capitalismo
23 Febbraio 2009
Capitalismo oggi
Il rapporto fra capitalismo e democrazia è complesso e contraddittorio. Da la Repubblica, 23 febbraio 2009 (m.p.g.)

Sembra che nel periodo in cui viviamo l’etica abbia invaso tutti gli spazi: commercio etico, finanza etica, imprese che adottano una Carta etica, preoccupazione per le generazioni future espresse in tutti i discorsi.

Eppure il capitalismo è ormai come fuori di sé. Mai prima d’ora «l’amore per il denaro», per usare l’espressione di Keynes, l’aveva condotto a simili eccessi: remunerazioni astronomiche ai più facoltosi, speranze realizzate di rendimenti chimerici, oscenità della miseria nel mondo, esplosione delle disuguaglianze, degrado ambientale ecc. Per spiegare questo paradosso si possono formulare, in sostanza, due sole ipotesi: la prima è che l’etica sia emersa come reazione allo spettacolo sconfortante delle conseguenze morali e sociali di un mondo economico per l’appunto alieno dall’etica. L’altra è che il tema morale costituisca l’elemento chiave di una nuova strategia di marketing, finalizzata a soddisfare più che mai la voglia di accumulare capitale. Del resto, queste due ipotesi non si escludono affatto a vicenda.

Non c’è dunque da stupirsi di quanto avviene nel momento attuale, caratterizzato da una grande distanza tra etica e capitalismo. Ma come spiegarla? È stata l’assenza di etica a spingere il capitalismo sull’orlo dell´abisso? In questo caso viene da pensare a un apologo: l’avidità e la cupidigia sarebbero gli "attivi" più "tossici" della finanza mondiale. Di fatto, non si può scartare l’ipotesi che oggi come ieri, l’abbandono dell’etica abbia portato il sistema alla crisi. «Due sono i vizi più caratteristici del mondo economico in cui viviamo», scriveva Keynes. «Esso non assicura né la piena occupazione, né l’equità della ripartizione della ricchezza e del reddito, che è arbitraria». Da dove procede questo giudizio morale sullo stato del mondo? Oppure, in altri termini: l’economia non è stata definita come scienza per eccellenza, avulsa da ogni considerazione etica?

Il suo irresistibile slittamento dallo status di disciplina morale e politica verso quello di economia-scienza, concepita come un ramo della matematica applicata, si è cristallizzato in un concetto di economia di mercato, apparentemente scevro da ogni connotazione storica o istituzionale. Eppure il capitalismo è senza dubbio una forma di organizzazione storica, con una sua precisa collocazione (un modo di produzione, direbbe Marx), nata dalle macerie e dalle convulsioni politiche dell´Ancien régime. Perciò il suo destino non è inciso nel marmo. In due parole, non è dissociabile dal politico. È l’interdipendenza tra lo Stato di diritto e l’attività economica a conferire al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell´economia è dunque un’illusione, come lo è la sua presunta capacità di autoregolarsi. Ed è proprio perché il bilanciere si è inclinato un po’ troppo verso quest’illusione che siamo giunti all’attuale rottura.

Dal punto di vista dell’etica, questo movimento del bilanciere corrisponde a un’inversione dei valori. Il rispetto dell’etica, si pensava, può essere meglio garantito imponendo più regole al funzionamento degli Stati (soprattutto in Europa, ma la teoria ci viene dall’America) e meno regole ai mercati. E a fare il resto ha provveduto dapprima l’ingegnosità dei mercati finanziari, poi il loro accecamento. Non è neppure il caso di sottolineare qui quanto fosse lontana dall’etica la grossa bugia delle istituzioni finanziarie, quando promettevano a tutti i loro clienti - contro ogni logica aritmetica - rendimenti superiori alla media. Era solo incompetenza? O forse, come recentemente ha osservato Paul Krugman, in fin dei conti l’attività finanziaria lecita non si è rivelata moralmente superiore a quella di un Bernard Madoff?

In ogni caso, alla radice del deficit etico del capitalismo contemporaneo c’è l’inversione della gerarchia tra politica ed economia, o spesso la pura e semplice subordinazione della prima alla seconda. Lo scandalo etico del nostro tempo sta nella globalizzazione della povertà, diffusa ormai anche nei Paesi più ricchi; e ancor più nell’accettazione di un grado insostenibile di sperequazione nei regimi democratici. Di fatto, il nostro sistema procede da una tensione tra due principi: quello del mercato e della disuguaglianza da un lato (un euro, un voto) e dall’altro quello della democrazia e dell’uguaglianza (una persona, un voto). E ciò comporta di necessità la ricerca permanente di una via di mezzo, di un compromesso.

La tensione tra questi due principi è dinamica, in quanto consente al sistema di adattarsi senza incorrere nella rottura che invece generalmente si produce nei sistemi retti da un solo principio organizzativo (il sistema sovietico). In altri termini, la tesi in base alla quale il capitalismo è sopravvissuto come forma dominante di organizzazione economica solo grazie alla democrazia, piuttosto che suo malgrado, appare intuitivamente assai più convincente. Ne abbiamo oggi una nuova dimostrazione.

Una normale gerarchia di valori esigerebbe allora che il principio economico sia subordinato alla democrazia, e non viceversa. Ora, i criteri generalmente adottati per giudicare se una politica o una riforma siano ben fondate o meno sono criteri di efficienza economica. Dan Usher ha proposto un altro criterio, che consiste nel chiedersi se una riforma sia suscettibile di rafforzare la democrazia, o al contrario di indebolirla; di promuovere l’adesione dei cittadini al regime politico, o di ridurla. Come appare evidente oggi, è questo il criterio giusto. In nome di quale pretesa efficienza si costringerebbero le persone a essere meno solidali di quanto vorrebbero?

Di fatto, i rapporti tra democrazia e mercato sono più complementari che conflittuali. Impedendo al mercato di generare esclusione, la democrazia rafforza la legittimità del sistema economico; e il mercato a sua volta favorisce l’adesione alla democrazia limitando l’incidenza del politico sulla vita dei cittadini.

Quando il valore primario è l’accumulazione del capitale, lo spettacolo del denaro facile offusca gli orizzonti temporali. L’anomalia di rendimenti finanziari eccessivi contribuisce al deprezzamento del futuro, all’impazienza verso il presente, alla disaffezione per il lavoro. Non c’è bisogno di ricorrere all’Antico Testamento, ad Aristotele o a Tomaso D’Aquino per illustrare la problematicità dei rapporti tra l’etica e il rendimento del denaro. Basta fare riferimento ad Adam Smith - non alla sua Teoria dei sentimenti morali, bensì alla Ricchezza delle nazioni. Smith postulava un controllo rigoroso dei tassi d’interesse, per un motivo apparentato a quello che ho appena sottolineato: il rischio di un deprezzamento del futuro. Scrive Adam Smith: «Se il tasso d’interesse legale in Gran Bretagna fosse fissato a un livello molto elevato quale ad esempio l´8 o il 10% … gran parte del capitale del Paese sarebbe sottratto ai soggetti in grado di farne probabilmente l’uso più proficuo, per cadere nelle mani di chi finirebbe per dilapidarlo o distruggerlo».

Il deprezzamento del futuro, in conseguenza di insostenibili pretese di rendimenti finanziari (ieri), o di tassi d’interesse anormalmente alti (oggi) si pone in contrasto con l’orizzonte temporale della democrazia, necessariamente di lungo periodo. E questa contrapposizione pregiudica la possibilità degli Stati di fornire beni pubblici essenziali, e in particolare quei beni che dovrebbero rispondere alle preoccupazioni per le generazioni future.

Il benessere dell’attuale generazione può essere analiticamente dissociato da quello delle generazioni future, o accresciuto a spese di queste ultime; in altri termini, tra le generazioni di oggi e di domani esiste in teoria un arbitraggio politico. Una delle chiavi di quest’arbitraggio è il tasso sociale di preferenza temporale, che ad esempio Nicholas Stern ha scelto di considerare pari a 0. Evidentemente, a determinarlo dovrebbe essere il dibattito politico, cioè la democrazia.

I rapporti tra le generazioni non sono tanto semplici da consentire l’ipotesi di un altruismo generalizzato. Esiste tuttavia un ambito in cui il benessere delle generazioni presenti e di quelle future si può considerare più complementare che alternativo: quello della giustizia sociale. Quando le disuguaglianze sono stridenti, una parte importante della società non ha più alcuna possibilità di proiettarsi nel futuro, neppure se lo desidera, imprigionata com’è nelle necessità impellenti del presente e del quotidiano. La questione ecologica si può allora riassumere nei seguenti termini: di quale politica abbiamo bisogno per consentire a ciascuno di proiettarsi nel futuro? Nell’ipotesi ottimistica che l’altruismo intergenerazionale sia "un sentimento morale" spontaneo, come sembra peraltro indicare l’attenzione di tutti noi per la sorte dei nostri figli, appare evidente che una riduzione delle disuguaglianze potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine.

In sintesi, per restituire più etica al capitalismo conviene approfittare dell’attuale momento di rottura negativa per rompere anche concettualmente con un passato dottrinale che ci ha condotto alle gravi turbolenze di oggi.

Allo stesso modo, per restituire prospettive al futuro servirebbe una "deregulation delle democrazie", riservando cioè più spazio alla volontà politica, e imponendo al tempo stesso più regole ai mercati. Ma non è proprio questo che oggi si sta verificando spontaneamente?

Sarebbe inoltre il caso di prendere più sul serio l’attività deliberativa sulle norme di giustizia che caratterizzano la democrazia. Il grado di disuguaglianza accettabile dovrebbe essere oggetto di una deliberazione pubblica annuale in sede parlamentare. Questo dibattito, basato sulle informazioni fornite degli istituti di statistica e dal lavoro dei ricercatori, avrebbe l’insigne vantaggio di evitare la deriva delle società democratiche verso livelli di disuguaglianza insostenibili, in assenza di controlli e di campanelli d’allarme e senza che l’opinione pubblica ne sia informata. La pubblicità che dovrebbe essere data ai dibattiti e la loro solennità permetterebbe di interrompere, una volta tanto, la concorrenza sociale e fiscale verso il basso, con la conseguente distruzione di beni pubblici. La speranza è che possa instaurarsi al suo posto una concorrenza verso l’alto.

Traduzione di Elisabetta Horvat

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