Vi sono segni che la parola «eguaglianza» - con tutto il lessico di moralità politica che comporta - possa uscire dall’oblio in cui molti, anche a sinistra, prigionieri o subalterni della fallace ideologia neoliberista, l’avevano lasciata colpevolmente cadere. Trovano oggi accoglimento i moniti del cattolicodemocratico Ermanno Gorrieri e del liberaldemocratico Ronald Dworkin i quali, a lungo inascoltati, hanno considerato l’eguaglianza come «virtù sovrana» tra la libertà e la solidarietà. Se così è, non può sfuggirci che nei processi inegualitari provocati dal neoliberismo - e di cui la crisi economica mostra, negli ingiustificati supercompensi dei manager, gli effetti parossistici - agiscono non una ma due componenti. Siamo di fronte, infatti, a un duplice fenomeno: a) sul valore aggiunto diminuisce la quota dei redditi da lavoro - essa si riduce addirittura fra i 10 e i 5 punti in tutti i paesi sviluppati - e aumenta quella dei redditi da capitale; b) crescono le diseguaglianze fra le retribuzioni, lungo tutta la scala distributiva, ma con un peso decisivo esercitato dall’aumento di quelle dei ricchissimi. Dunque, vanno sottolineati due aspetti: 1) responsabile primaria del peggioramento della distribuzione famigliare del reddito è la «componente di mercato»; 2) la crescita delle disparità è dovuta, più che al peggioramento della posizione relativa dei poveri, a un forte miglioramento della posizione dei ricchi e, fra di essi, dei superricchi. La situazione della diseguaglianza a livello mondiale è stata a lungo trattata con la tesi che prioritaria fosse la crescita, che vi fosse una correlazione stretta tra crescita e liberalizzazioni, che dalla crescita sarebbe spontaneamente scaturito anche un lenimento della povertà e delle diseguaglianze. Così, però, non è stato ed, anzi, la situazione è diventata così seria che anche le istituzioni - IMF, WB, OCSE - che hanno a lungo trascurato di farne oggetto prioritario della loro attenzione hanno iniziato a prestare più ascolto alle problematiche della diseguaglianza. La situazione è destinata, peraltro, ad aggravarsi con l’esplosione della crisi economica odierna che è tutto tranne che «psicologica», come irresponsabilmente dice Berlusconi. L’ultimo rapporto dell’OIL dà la disoccupazione in crescita nel 2009 da 190 milioni fino a 240 milioni di unità, il numero di lavoratori poveri che guadagnano meno di due dollari al giorno in aumento fino a 1,4 miliardi di unità (il 45% degli occupati mondiali), il numero di quelli con lavoro «vulnerabile», cioè privo di reti di salvataggio, in incremento fino al 53% del totale. Il punto cruciale è che povertà e diseguaglianze non sono né un incidente né un’appendice dei processi economici in corso, ma ne sono un elemento strutturale, rimovibiliesolo con un forte intervento pubblico di tipo altrettanto strutturale, un intervento di equità che investa tanto la sfera allocativa che quella redistributiva.