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Leonardo Benevolo
Se perde l’architettura
21 Luglio 2006
Recensioni e segnalazioni
Una bella intervista di Francesco Erbani al grande storico dell’urbanistica, su la Repubblica del 21 giugno 2006. Nel mirino rendita immobiliare e starsystem

Leonardo Benevolo ha ottantatré anni ed è uno dei maestri dell’urbanistica in Italia. Può guardare dall’alto di un’esperienza non solo di progettista, ma soprattutto di storico, alle vaste praterie popolate di architetti e di teorici dell’architettura, l’immensa scena di ciò che si costruisce dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Germania e dall’Inghilterra alla Nuova Zelanda e all’India. Ha scritto volumi fondamentali sull’architettura dalle origini al Rinascimento fino ai giorni nostri. Ma ora, con L’architettura del nuovo millennio (Laterza, pagg. 484, euro 35), diventa storico della contemporaneità, del suo complicato svolgimento, senza pretendere di definire tutto o di nominare tutti, ma anche senza rinunciare ai giudizi netti: sulle "archistar", i grandi progettisti che hanno raggiunto gloria mediatica da un angolo all’altro del pianeta; sull’inferiorità dell’Italia (non degli architetti italiani) nel confronto internazionale; su uno dei motivi per cui l’architettura esce sconfitta in Italia, e con lei il territorio e il paesaggio – un antico, ma sempre attuale motivo: la grande forza di cui godono i proprietari privati, gli speculatori, i quali vogliono ricavare quanta più rendita possibile.

Si può mettere un ordine provvisorio, lei scrive, nell’architettura contemporanea. Da dove cominciare?

«Da due principi. Il primo è quello che possiamo chiamare "l’intelligenza dei luoghi". L’architettura modifica i luoghi, sia l’ambiente fisico sia lo scenario di ciò che è già edificato. Ora l’architettura deve avere consapevolezza che le trasformazioni devono custodire l’integrità di un lavoro complessivo di costruzione dell’ambiente umanizzato, che dura dall’alba dei tempi. Il secondo principio è la competenza tecnologica, che è cambiata completamente rispetto al passato».

Cosa vuol dire, in concreto, "l’intelligenza dei luoghi"?

«La distruzione del passato, cominciata da due secoli, è ancora in corso e solo recentemente si è imparato a limitarla. Questo vale soprattutto per l’Europa, dove abbiamo un passato più importante che in altri continenti. Le città storiche, da Venezia a Siena, da Bruges ad Amsterdam, contengono un segreto essenziale per noi: l’unico modello qualitativo ancora alla portata della nostra civiltà democratica».

Vale a dire?

«Nascono nel Medioevo dal compromesso tra un potere sicuro di sé, ma non più dispotico come nell’antichità classica, e una pluralità di operatori cittadini che perseguono i loro fini, ma sono sottomessi a un sistema di regole. Da questo compromesso, da questa imperfezione nasce una forma diversa di perfezione. Venezia non è meno bella di Atene, è bella in modo diverso».

Da qui scaturisce il bisogno di tutelare le città storiche?

«Certo. Ma non come siti archeologici, che si salvaguardano per essere visitati. Bensì come organismi viventi. Questa è la vera conservazione. Gli unici cambiamenti ammissibili sono quelli che consentano ai centri storici di essere abitati, di possedere ancora quel congegno di relazioni che li hanno alimentati per secoli».

In Italia sono maturate alcune esperienze in questa materia.

«La "conservazione attiva" è stata messa a punto negli anni Sessanta e Settanta, ed è forse il contributo più rilevante che noi abbiamo recato alla cultura architettonica nel secolo XX. Prenda gli interventi di Pier Luigi Cervellati a Bologna fra il 1965 e il 1980, che hanno promosso il restauro di interi quartieri riconsegnandoli a chi li abitava».

A questo punto urge l’attualità. Che cosa pensa della sistemazione dell’Ara Pacis a Roma, progettata da Richard Meier?

«Tutto nasce da un equivoco. Il disastroso intervento su piazza Augusto Imperatore degli anni Trenta è stato letto dai tecnici del Comune di Roma come prodotto del razionalismo italiano. Invece è frutto del peggior accademismo classicheggiante, di quella che Giuseppe Pagano chiamava "l’internazionale dei pompieri". Sulla base di quel presupposto Meier è stato chiamato come esponente di un fantomatico "razionalismo americano"».

Alla base di tutto c’è dunque un difetto culturale, di "intelligenza dei luoghi"?

«Non solo. Invece di pensare a una nuova teca per l’Ara Pacis, si è immaginato di costruire il quarto lato della piazza con un edificio che contenga, oltre al monumento, una lunga serie di ambienti destinati a immiserirlo. Meier ha attenuato questo programma. Rispetto alle premesse, la sua costruzione è elegante e moderata, ma completamente spaesata».

Lei raggruppa in grandi architetti europei in due categorie, gli eredi della moderna tradizione continentale – Valle, Gregotti, De Carlo, Moneo e Siza – e gli "innovatori" – Foster, Rogers, Piano e Nouvel. Quali differenze ci sono fra i primi e i secondi?

«I primi prolungano la continuità novecentesca del dopoguerra, ma hanno subìto una mutazione che li stacca dalle circostanze di origine. È la tensione sottostante fra tradizione e innovazione che li distingue da molti spensierati continuatori delle tendenze di allora. I secondi, invece, sono capaci di invenzione pura e hanno il gusto della tecnologia. Dipendono da una precedente stagione della modernità, quella fra le due guerre».

Lei istituisce poi altre categorie, fra i quali "gli impazienti". Chi sono?

«Occorre una premessa. La precocità sembra diventata impossibile. Oggi si diventa bravi dopo i sessant’anni. Renzo Piano è un caso esemplare: la sua produzione sale di tono negli anni Novanta, con opere di prim’ordine come il centro culturale Jean Marie Tijbaou in Nuova Caledonia o il Museo della Scienza e della Tecnica ad Amsterdam»

Torniamo agli impazienti.

«I "giovani" che hanno fra i quaranta e i sessant’anni si espongono a due generi di successo, quello architettonico e quello mediatico, che si rivelano alla lunga incompatibili fra loro».

Siamo quindi a quelle che chiamano "archistar".

«L’espressione rimanda agli architetti di fama assicurata, scelti per fare pubblicità a marchi famosi della moda o dell’industria automobilistica».

Facciamo ora qualche nome: Frank O. Gehry.

«Gehry appartiene a una generazione precedente. Non si presenta come un mago dell’architettura, fa più professione di modestia rispetto a molti colleghi giovani. Per lui conta soprattutto la meraviglia per le forme inconsuete, predilige quelle oblique e curvilinee. Ma poi paga un prezzo figurativo, perché si vincola a una gamma preconcetta di effetti che impoverisce il suo lavoro».

E Zaha Hadid?

«Ha virato nettamente sul versante artistico. Una volta ha scritto: "Perché attenersi all’angolo di novanta gradi, quando ce ne sono disponibili altri trecentocinquantanove?". Per lei si parla di "superiorità dell’architettura nella produzione di spazio". Superiorità rispetto a cos’altro? A me sembra che il suo lavoro resti confinato nel mondo dell’intrattenimento».

Un’altra "archistar": Santiago Calatrava.

«È un tecnico capace di inventare strutture semoventi. Ma negli edifici olimpici realizzati in Grecia vedo megalomania, eclettismo e un gusto artistico scadente».

Lei ritiene che molti architetti vogliano diventare artisti?

«Un critico come Germano Celant desidera un’architettura che "si liberi degli aspetti funzionali". Ma l’architettura è un utensile necessario del vivere».

Per l’Italia lei parla di sconfitta dell’architettura.

«Abbiamo distrutto il nostro paesaggio che è un patrimonio di rilevanza mondiale. La dissoluzione non è avvenuta per incuria, è stata pagata in contanti».

Pensa ai protagonisti della speculazione edilizia?

«La rendita fondiaria è ormai una componente primaria del nostro comparto finanziario, che sopravanza quello industriale».

Mi faccia qualche esempio.

«Milano è l’epicentro della cultura professionale italiana. Ma se si esclude il caso riuscito della Bicocca, il riuso delle grandi aree industriali dismesse è gravemente condizionato dai processi di valorizzazione speculativa, che lasciano pochissimi margini alle scelte progettuali. L’architettura resta un ornamento secondario. Eppure sono mobilitati grandi nomi, da Pei a Pelli, da Foster a Chipperfield. Guardi, per citare un caso, cosa succede nell’area dell’ex Fiera di Milano».

Cosa succede?

«Ha vinto il progetto di gran lunga peggiore, con tre grattacieli da collezione che frammentano e rendono inutilizzabile il parco pubblico previsto dal programma. Arata Isozaki ha clonato un suo progetto precedente, Daniel Libeskind e la Hadid presentano due sculture gesticolanti che è difficile immaginare realizzate a grandezza naturale».

Si poteva fare altrimenti?

«Si sarebbe potuta seguire la tradizione europea, realizzata integralmente in Olanda, parzialmente in altri paesi, quasi mai da noi. L’autorità pubblica avrebbe dovuto acquistare l’area soggetta a trasformazione per poi rivendere agli operatori privati i lotti edificabili. Così si elimina l’interesse speculativo, ma non il legittimo profitto dei privati. Dal canto suo l’ente pubblico guadagna la libertà di progettare e di mantenere il controllo delle fasi di lavorazione. E l’architettura è salva».

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