Il manifesto, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)
Il Presidente, se è permesso semplificare, è risalito alla crisi del ’92–94 imputandola ad «abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali». Dopo quella crisi, tuttavia, una salutare opera di risanamento sarebbe stata a suo dire intrapresa, conseguendo «risultati non certo irrilevanti». Qualcosa, il Presidente Napolitano riconosce, «allora mancò». Ma la critica antipolitica si è ostinatamente rifiutata di riconoscere sia i risultati allora conseguiti, sia gli «impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento».
Ma proprio su questa affermazione è legittimo avanzare dubbi. Perché se Mani Pulite sanzionò un vistoso e protratto decadimento della vita pubblica, il ventennio successivo è stato molto peggio. Anzi: c’è motivo di ritenere che le risposte allora allestite, ovvero, nelle parole del Presidente, il «rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi» e «la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni», anziché migliorare la situazione l’abbiano aggravata. Il Presidente non può forse dirlo, ma l’Italia sta uscendo con le ossa rotte — economicamente e moralmente — da un ventennio «berlusconiano» di cui gli scandali romani sono solo la più recente, ma forse non l’ultima, manifestazione.
Ci sarebbe cioè da stupirsi se, dopo vent’anni di così disastroso malgoverno, non fossero comparse «rappresentazioni distruttive del mondo della politica». Ha ragione il Presidente a ricordare che non tutto è andato storto. Nel Mezzogiorno, ad esempio, si sono registrati apprezzabili progressi nella lotta al crimine organizzato. Ma non si può negare che gli italiani mediamente stiano peggio e che la vita pubblica sia afflitta da inefficenze e fallimenti d’ogni sorta. Il costo del ventennio che il paese sta pagando è altissimo. Sappiamo bene che tutto si regge: il malgoverno ha impedito di affrontare adeguatamente il declino industriale, il debito pubblico è cresciuto a dismisura perché il paese non cresceva e sprecava per ragioni di consenso e in malaffare. Adesso le spietate misure di risanamento imposte dall’Europa stanno strangolando l’economia e l’intera società. E gli unici rimedi pare siano l’abolizione del Senato, un’ indecente legge elettorale, la rimozione manu militari dell’art. 18 e le Olimpiadi a Roma nel 2024.
Presidente, come si fa a non essere antipolitici in queste condizioni? Eppure, Napolitano una parte di ragione ce l’ha. L’antipolitica si nutre dei fallimenti della politica, ma pure dei discorsi irresponsabili pronunciati contro di essa. Discorsi che oggidì possiamo attribuire a Grillo e a Salvini, ma che sono stati pronunciati anche da molti altri. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
L’antipolitica risale a molto indietro nel tempo. Era antipolitica già il movimento referendario dei primi anni 90. È stato antipolitica il leghismo, ma anche il berlusconismo, che l’ha anzi portata al governo. E, per venire a casi più recenti, Renzi non scherza affatto in materia. Non lesina espressioni offensive nei confronti degli avversari politici e non risparmia demagogici appelli al popolo sovrano. A ben vedere, un po’ di antipolitica l’ha fatta anche Lei, Signor Presidente, quando, collassato il berlusconismo, anziché seguire la via maestra delle urne, commissariò la politica chiamando a Palazzo Chigi un Sommo Tecnico, che aggiunse disastro a disastro.
Come se ne esce? La ricetta è tanto semplice quanto irrealizzabile. Rimettendo in moto economia, società e politica. Una delle ragioni della corruzione dilagante è lo stallo dell’economia, le cui classi dirigenti cercano di rifarsi corrompendo la politica dei loro insuccessi sul mercato, esattamente come invece che fare impresa fanno finanza. Non solo gran parte della classe politica, ma anche una buona parte della classe dirigente economica sarebbe da cambiare. Il problema è che chi già detiene posizioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difendersi. Tanto più in politica, dove da tempo è giunta al vertice una classe dirigente «pura», priva d’ogni contatto con la società, cresciuta dentro le attività rappresentative e di governo e mai adoperatasi nella cura della militanza e dell’elettorato. Renzi incarna questo modello come nessun altro. Solo che il modello del politico «puro» è in giro da un pezzo. Dagli anni 70 in poi, allorché pure nel Pci il partito degli amministratori travolse quello dei militanti. Le ragioni dell’antipolitica cominciarono a montare in quel momento. Gli amministratori, era successo già nella Dc e nel Psi, avevano meno remore morali dei militanti. La questione morale berlingueriana fu archiviata. Gli scandali si accelerarono, crebbe il malumore e qualcuno cominciò a cavalcarlo seminando antipolitica. Lo cavalcarono anche amministratori e aspiranti amministratori di tutti i partiti - specie i politici «puri» - con un preciso obiettivo: decidere e non mediare, ossia liberarsi di tutti gli oneri che comporta una politica socialmente radicata. Pragmatismo anziché ideologia.
Accantonata quella che Rita Di Leo ha definito la politica-progetto, la crescita dell’antipolitica diventò incontenibile. Anzi, è divenuta un florido business. Le riforme istituzionali dei prima anni 90, le suggestioni leaderistiche che hanno alimentato, l’abbattimento degli obsoleti e burocratici controlli di legalità, figlie dell’antipolitica, non hanno curato il malaffare, ma l’hanno aggravato. E Grillo e Salvini, signor Presidente, non sono i soli che ci speculano sopra.