Se c´era bisogno (e non ce n´era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un´ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell´ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).
E alla fine, per non far mancare nulla all´indimenticabile occasione storica, fuochi d´artificio come a Piedigrotta nell´illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna.
Mario Merola, con tutta l´indecorosa ammuina, non c´entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell´ora dell´addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell´oggi, un´identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.
Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov´è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell´inerzia di troppi. Per accettare quest´atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un´icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.
Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l´assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».
Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell´uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell´illegalità, scava un solco tra l´illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz´e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.
Può essere l´illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l´illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l´uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all´anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata… il mio lungo viaggio», spiega che «l´uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».
Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore – "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.