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Franco Marcoaldi
Se le città invisibili raccontano i nostri sogni
19 Febbraio 2010
Recensioni e segnalazioni
Analisi letteraria di un classico molto amato da eddyburg: senza tempo e per questo assolutamente attuale. Da la Repubblica, 11 agosto 2009 (m.p.g.)

Per quanto favolosi, Bengodi e il Paese di Cuccagna non appagano pienamente le nostre fantasie sui luoghi immaginari. Ci serve qualcosa di più elettrico, nervoso. E quel qualcosa, forse, si può trovare in città. Per questo abbiamo ripreso in mano «Le città invisibili» di Italo Calvino: il libro in cui, a suo stesso giudizio, ha «detto più cose»; in cui sono confluiti tutti i ragionamenti, le osservazioni e le ansie riguardo alla sua idea di letteratura. Perché la città, suggerisce nelle «Lezioni americane», è il simbolo ideale della costante frizione tra il desiderio di un ordine razionale e geometrico della realtà e il caos pulviscolare che la sottende.

Per dare conto di questo doppio movimento, Calvino disegna un atlante metropolitano fantastico e noi lo seguiamo stupefatti.

Perché tutti quei luoghi, frutto dell´immaginazione, raccontano al contempo la nostra realtà quotidiana: raccontano la simultanea molteplicità di un mondo che ci illudiamo di conoscere e controllare per intero, mentre ci sfugge da tutte le parti, alimentando frustrazione e smarrimento. E´ come se fossimo chiamati a un compito che non riusciamo ad assolvere. E proprio la metropoli è il contrassegno più puntuale di questa fatica, un caleidoscopio continuamente cangiante e inafferrabile in cui si assommano e si elidono i segni più controversi, indecifrabili.

Calvino ci descrive cinquantacinque possibili prototipi urbani.

Che scorrono davanti ai nostri occhi grazie al mirabile dialogo tra Marco Polo, il viaggiatore per antonomasia, e Kublai Kan, l´imperatore che accoglie i suoi racconti.

Ogni città porta il nome di una donna, e ogni città è l´incrocio tra memoria e desiderio. Zaira, più che dai suoi edifici, è connotata dal rapporto tra lo spazio e gli eventi trascorsi. Anastasia «non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli». Armilla è una foresta di condutture d´acqua, attraversando la quale è impossibile capire se debba ancora essere ultimata o se al contrario stia andando incontro alla rovina.

Valdrada è doppia: costruita sulla riva di un lago, si riflette nell´acqua in ogni minimo dettaglio. Anche Sofronia è doppia: metà permanente, l´altra transitoria. E pure Despina a suo modo lo è, perché «si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare».

La duplicità, secondo Calvino, non è soltanto un tratto costitutivo di queste città; è qualità intrinseca all´idea di esattezza, che rappresenta uno dei suoi capisaldi letterari. E bene ce lo dimostra descrivendo l´approccio opposto dei due protagonisti del libro, Marco Polo e Kublai Kan. Entrambi cercano l´esattezza: ma mentre il primo lo fa descrivendo il tumultuoso assommarsi delle più diverse e contraddittorie sensazioni, il secondo rincorre una rigida tassonomia di tutti i luoghi dell´impero.

A tenere insieme questa visione antinomica dell´universo, c´è lui, l´autore. Che si dibatte in tale conflitto scrivendo non a caso un libro anfibio, indefinibile. Già, che cosa stiamo leggendo: un poema in prosa? un immaginifico portolano? un apologo della post-modernità urbana? Per certo un vertiginoso gioco combinatorio, che col trascorrere delle pagine si fa (anche) angoscioso. Perché via via che cresce la ragnatela che collega tutti gli elementi messi in campo, il lettore si ritrova in quello spazio non come se fosse il ragno che l´ha creato, ma piuttosto la preda che corre il rischio di lasciarci le penne. E bene se ne accorge proprio quando ‘raggiunge´ Ottavia, la città-ragnatela sospesa nel vuoto.

Incastonata tra due montagne, la si percorre grazie a un sistema di traversine e passerelle. Ma il suo cuore pulsante, «invece d´elevarsi sopra, sta appeso sotto»: in un groviglio senza fine di amache, girarrosti, docce, teleferiche. L´effetto di spiazzamento, peraltro, non si è ancora esaurito.

Perché Calvino aggiunge: «sospesa sull´abisso, la vita degli abitanti d´Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge». Ed evidentemente lo sa anche il suo novello Marco Polo, sospeso a sua volta - come noi tutti - a una vita sempre più aerea, nebulosa. Dove la dimensione mentale e immaginaria del viaggio finisce per prevalere su quella fisica, sensibile.

Non per caso egli si muove nel tempo, più che nello spazio. E va in cerca di un passato che non sapeva più di avere; o di un possibile futuro che scopre essersi trasformato «nel presente di qualcun altro». Del resto, tutto si incrocia e si scambia in questo favoloso pellegrinaggio congetturale, le cui prospettive sono sempre ingannevoli.

Ecco perché è così difficile stabilire l´ordine temporale in cui si consuma questa peregrinazione. Calvino ricorda che il modello di riferimento iniziale era «Il Milione». Ma assieme dichiara che il suo intento è quello di dedicare «un ultimo poema d´amore» alla metropoli contemporanea, di cui conosce alla perfezione falle, orrori e incombenti rischi di catastrofe. E ce li descrive con un´esattezza visionaria impressionante, che anticipa di quasi quarant´anni il nostro presente. Come nel caso di Leonia, che cercando di ripulirsi dalle sue impurità, crea attorno a sé una catena di montagne di immondizia. E dal momento che sta accadendo lo stesso nelle metropoli vicine, «i confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell´una e dell´altra si puntellano a vicenda». E ancora: che dire di Pentesilea, dove il visitatore, dopo ore e ore di vagabondaggio, non ha ancora capito se si trova al centro della città o non l´ha ancora raggiunta? Dunque Pentesilea altro non è che «la periferia di se stessa»? E se è così, siamo proprio sicuri che una volta entrati sia poi possibile uscirne?

Per accompagnarci in questo labirintico viaggio nell´invisibile - ecco il paradosso - lo scrittore privilegia, tra tutti i sensi, proprio la vista.

Punteggiando di immagini ogni pagina, ogni paragrafo, ogni giro di frase.

Invitando il lettore a vedere, o meglio ancora a stravedere, quanto gli viene raccontato.

E difatti, i primi accostamenti a cui viene naturale pensare, sono di tipo extraletterario: pittura, cinema. Ma è talmente vasto l´arco storico e concettuale di riferimento, che le interpretazioni possono essere le più diverse. E tutte ugualmente plausibili.

Il pittore spagnolo Pedro Cano, ad esempio, ha lavorato a lungo sulle «Citta invisibili» e ne ha offerto una fascinosa lettura ‘classica’, dove la fantasia ha la meglio sul terrore e il sogno sull´incubo. Se però, sempre leggendo Calvino, il pensiero corre a certi film di fantascienza, il quadro può rovesciarsi di colpo.

Forse che l´infernale Los Angeles del 2019 raffigurata nell´indimenticabile «Blade Runner» non potrebbe essere una parente stretta dell´Armilla calviniana?

Il vero prodigio delle «Città invisibili» è proprio questo: l´inesausto andirivieni che le avvolge e le accompagna. Non sarà allora che il tempo che meglio le contrassegna è il futuro anteriore? Una forma verbale quanto mai enigmatica, che indica un´esperienza a venire, come già consumata? E non è forse la nostra attuale condizione?

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