A come agricoltura. E anche come aria, alimentazione, ambiente. Sono le quattro "A" che regolano la vita dell’umanità dalla notte dei tempi, in quella catena della sopravvivenza che ha garantito fin qui la prosecuzione della specie. Ma la campagna italiana, minacciata innanzitutto dal cemento e dall’asfalto, rischia di deperire irrimediabilmente, coinvolgendo anche la conservazione del paesaggio su cui si fonda la nostra identità nazionale. I danni prodotti dall’ultima ondata di maltempo, dal Veneto alla Campania, rappresentano perciò - al di là della loro dimensione economica e sociale - un avvertimento della natura contro la devastazione provocata dalla mano dell’uomo.
L’agricoltura italiana sta attraversando la crisi peggiore dal dopoguerra. Dal 2000 al 2009, la sua quota di Pil (Prodotto interno lordo) è scesa dal 2,5 al 1,6%. Le nostre campagne si stanno progressivamente spopolando, mentre le piccole aziende agricole lasciano spazio alla coltivazione intensiva: negli ultimi dieci anni, sono già diminuite del 26% e quelle con allevamenti di bestiame si sono ridotte addirittura alla metà. Altro che "dipendenza energetica" dall’estero: di questo passo l’Italia rischia di perdere anche l’indipendenza alimentare, di non avere più frutta e verdura proprie né carne di produzione locale da consumare. Hanno senz’altro ragione quindi gli agricoltori a sentirsi traditi da una politica che non li aiuta e da una burocrazia inutilmente complessa e onerosa, nonché da un mercato che non rispetta i costi reali del lavoro.
Ma il peggio è che l’abbandono dell’agricoltura sta distruggendo di conseguenza il paesaggio, l’ambiente e la biodiversità, con la prospettiva di inevitabili ripercussioni sul turismo e su tutto l’indotto: dall’industria alberghiera alla ristorazione, dall’eno-gastronomia all’artigianato. Nel frattempo, il degrado ambientale e il dissesto idrogeologico non fanno che aggravare i danni del maltempo, scaricandoli fatalmente sulle casse dello Stato e degli enti locali: negli ultimi sessant’anni, dal ‘51 al 2009, le alluvioni, le frane e i crolli sono costati complessivamente 50 miliardi di euro, con un bilancio ancor più grave in termini di vite umane che registra purtroppo 3.660 vittime. E anche questa è una conseguenza del cambiamento climatico prodotto dall’effetto serra, cioè dall’inquinamento e dal riscaldamento del pianeta, con il fenomeno tipicamente tropicale delle piogge concentrate in poche ore o in pochi giorni che si alternano a periodi di siccità.
C’è dunque un fondo di saggezza nel proverbio popolare che dice: «Piove, governo ladro». E non sta tanto, come si può ricavare da una lettura superficiale, nell’ovvio qualunquismo di un’imprecazione del genere. Quanto piuttosto nella consapevolezza che perfino un evento meteorologico come la pioggia, quando diventa una calamità naturale e provoca alluvioni, frane, crolli, vittime e danni, interpella fatalmente le responsabilità di chi governa o non governa il territorio. Di chi appunto "ruba" il suolo, consumandolo con la cementificazione selvaggia, l’urbanizzazione irregolare, il disboscamento, l’abusivismo e con quella malattia endemica della società moderna che si può chiamare "capannonite", cioè l’estensione indiscriminata dei capannoni che invadono e ricoprono la campagna.
Non è allarmistico né esagerato concludere, dunque, che lo stato dell’agricoltura italiana segnala ormai un’emergenza nazionale, da cui dipende non solo il futuro di un settore fondamentale per l’intera economia italiana, ma la stessa identità sociale e culturale del Paese. Nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale e poi post-industriale, rischiamo di cadere nel vuoto dell’inciviltà perdendo il senso dell’orientamento e la direzione di un autentico progresso.