Fine del sistema parlamentare
di Luciano Canfora
A giudizio di molti, il punto più basso è stato raggiunto martedì 14 dicembre con il mercato dei parlamentari compravenduti. Peraltro già mesi addietro, profeticamente, un fantasioso esponente PdL teorizzò, in vivaci dibattiti televisivi, la liceità del vendere il proprio corpo (maschile o femminile) al fine di «fare carriera». Sovviene la franchezza e freschezza lessicale dell'Alighieri a riguardo del lavoro diTaide: lavoro che si può esplicare anche vendendo il proprio voto di parlamentare in cambio di un mutuo o di un kepos (che ovviamente non va confuso col CEPU).
Ma, a ben riflettere, non era quello il punto più basso. In fondo anche il saggio Solone, anziché reprimerlo questo genere di lavoro, preferì disciplinarlo. Il punto più basso è stato raggiunto, invece, quando si son visti dotti maestri del giure disquisire a giustificazione dei deputati in vendita (non ancora in vetrina). Un ex presidente della Corte, con saggezza alla Polonio, ha pensosamente invitato, chi nel fenomeno del deputato in vendita ravvisa un reato, a «valutare con grande attenzione la compatibilità dell'articolo 68 della Costituzione» con la denuncia all'autorità giudiziaria dei compravenduti. Un altro sofo, esperto forse della vita che si conduce nell'entourage del premier, ha dichiarato al "Corriere della Sera" di sabato 11: «Bisogna essere cauti», e ha invitato a distinguere tra i casi in cui «il deputato che passa dall'altra parte ottiene mutui, soldi ed escort (sic)» e i casi in cui «la contropartita è la ricandidatura o un posto da presidente di commissione o di sottosegretario».
Ascoltando queste parole sembra di affogare nel fango. È la campana a morto per il sistema rappresentativo-parlamentare. Quel sistema appare ormai agonizzante, e la consapevolezza della fine di esso diviene senso comune.
Quella decadenza viene da lontano. Da quando il fatuo pseudo-concetto di «bipolarismo» ed il suo corollario («voto inutile») hanno preso piede nella società politico-giornalistica, il principio stesso della rappresentanza è stato ferito, e il cardine «un uomo/un voto» è stato liquidato. Da allora in avanti il distacco tra parlamento e paese si è venuto aggravando. E la lotta politica appare ormai piuttosto come un tavolo da gioco intorno al quale si punta al «jolly» del «premio di maggioranza».
Dal tavolo da gioco alla compravendita del voto il passo è stato breve. E dalla compravendita del voto a quella degli eletti il passo è stato ancora più breve. Servì per affossare Prodi; è servito daccapo martedì scorso.
Che il sistema rappresentativo-parlamentare fosse un prodotto storico, cioè un fenomeno che nasce, si sviluppa e muore, e non un valore «eterno», lo avrebbe capito a priori anche un principiante. Ora ne abbiamo la prova in corpore vili.
Come sempre quando le classi in lotta «marciscono» (per dirla con Gramsci) il problema è se ci attenda un Cesare. Magari da baraccone, galleggiante su di un ceto parlamentare in cui, come si esprime l'avv. Pecorella, si scambiano «soldi, mutui o escort».
Prosit.
Nell'Italia di Berlusconi,
una democrazia parlamentare a rispettabilità limitata
di Colin Crouch
Per lo straniero che osserva l'Italia dall'esterno, il crollo finale delle pretese di rispettabilità della democrazia parlamentare italiana, cui abbiamo assistito nel corso del voto sulla fiducia/sfiducia al governo, suscita due tipi di riflessioni: considerazioni particolari, specifiche del caso italiano; e considerazioni più generali, che valgono per tutti.
Il caso italiano
Particolare – o almeno così sembra – è il modo in cui la classe politica e anche gli elettori italiani hanno accettato i ripetuti oltraggi inferti alle norme costituzionali durante il lungo periodo berlusconiano: le immunità privilegiate – anzi il fatto stesso che un presidente del consiglio debba ricorrere a così tante immunità; la concentrazione dei poteri politici, mediatici ed economici in un singolo uomo. In situazioni del genere, la democrazia e il costituzionalismo hanno bisogno di una sospensione delle lealtà di partito e di ideologia per proteggere l'integrità del sistema e la reputazione stessa del paese. Non mancano, certo, esempi importanti di un simile comportamento – per citarne uno quello del presidente della Camera Fini – di parlamentari che hanno accettato di assumersi una responsabilità di questa portata. Ma i loro numeri non bastano; e il fatto che queste persone abbiano dimostrato che un tale comportamento è possibile, rende ancora più vergognoso quello degli altri.
Quanto agli elettori, chissà cosa pensano realmente. In tanti, sono tuttora convinti che Berlusconi sia il solo in grado di proteggere gli italiani dal bolscevismo di The Economist e delle "toghe rosse"; altri, forse, ritengono che è giusto che un Parlamento di furbi sia governato dal più furbo; altri ancora alzano le spalle, sostenendo che l'Italia vera non ha bisogno di una classe politica nazionale autoreferenziale e delle sue istituzioni, ma può tirare avanti con il civismo forte della vita locale di tante parti del paese; altri ancora alzano le spalle e basta.
Dietro tutti gli sviluppi bizzarri e imprevisti degli anni berlusconiani – destinati a continuare – rimane l'incongruità iniziale del 1994, da cui discende tutto il resto. Dalle rovine della cosiddetta "prima Repubblica" emerse un uomo, Berlusconi, che stava al centro di quella Repubblica con i suoi misteriosi legami finanziari, e che "scese in campo" proponendosi come colui che avrebbe dato vita a una nuova, pulita, vita politica italiana. E gran parte degli italiani gli credette. In realtà, ciò che era crollato erano esclusivamente le organizzazioni politiche della prima Repubblica, non le sue pratiche di Tangentopoli. Berlusconi era sicuramente in grado di creare nuove organizzazioni, con al centro il suo partito-azienda. Ma un partito-azienda non poteva cambiare le dubbie pratiche della prima Repubblica. Queste continuarono, continuano, e continueranno. C'è qui un paradosso profondo: in un certo senso, gli aspri contrasti tra i partiti della prima Repubblica erano una delle cause dei suoi vizi; ma in un altro senso rappresentavano una protezione contro di essi. Il conflitto tra la Chiesa e il comunismo, e le relative identità, era infatti talmente profondo, che gli elettori non guardavano criticamente il comportamento dei loro rappresentanti. Ma la robustezza delle organizzazioni di partito – con la lealtà alla Chiesa, a un'ideologia, agli eroi del passato, ma anche con il bisogno di dare soddisfazione ai militanti dei partiti, motivati principalmente dalla condivisione di ideali – riusciva pure a imporre delle restrizioni al comportamento degli individui e a proteggere la democrazia italiana dagli aspetti più devastanti delle cattive pratiche.
Con la crisi di Tangentopoli e dei partiti, anche questi controlli si dissolsero, almeno per i partiti principali del vecchio centro, Dc e Psi. Allo stesso tempo il Pci entrò a sua volta in difficoltà a seguito del crollo dell'Unione Sovietica, sebbene i comunisti italiani avessero già preso largamente le distanze dal comunismo sovietico. Gli altri outsiders, come Alleanza Nazionale, non poterono resistere all'abbraccio berlusconiano.
In assenza di una disciplina di partito come collante tra i politici e la società, fiorirono senza alcun tipo di restrizione tutti i vizi della prima Repubblica: una classe politica "a sé stante", con deboli legami col popolo, che cerca di accaparrarsi posti, posizioni, vantaggi e occasioni di ogni tipo. Col suo partito-azienda, Silvio Berlusconi fu – ed è – il 'leader' perfetto per un simile sistema.
Lezione per gli altri?
Una stravaganza italiana, dunque, diranno gli stranieri, che magari ci fa ridere, ma che non deve preoccuparci. Ma non è così. Viste le particolari condizioni del crollo dei partiti italiani negli anni 90, il paese è andato incontro in tempi rapidissimi a un'esperienza più generale, che riguarda anche altri paesi. Le ideologie, di ispirazione sia religiosa sia di classe, che formarono le identità e le organizzazioni politiche del secolo scorso, stanno perdendo dappertutto la loro forza, la loro realtà. Dovunque i partiti si presentano come contenitori vuoti, che usano simboli e retorica del passato nell'illusione che producano legami anche più artificiali con il popolo, ma che assumono come loro compito principale la distribuzione di posti, di favoritismi, e di ogni altro privilegio a personaggi politici staccati dal legame con la società.
Ma se le classi politiche stando perdendo il contatto con il popolo, non lo perdono con le grandi aziende, le quali non hanno smarrito la propria capacità organizzativa, hanno bisogno dei governi e possono usarli. Per queste ragioni la crisi generale dei rapporti tra il mondo politico e l'elettorato è una crisi che tocca soprattutto il centro-sinistra. Una politica dominata dalle grandi imprese dà più fastidio alla sinistra che alla destra.
Alcune particolarità del caso italiano rimangono: la velocità del crollo degli anni 90 ha svelato la nudità, il vuoto dei partiti in modo particolarmente brutto; nel resto del mondo democratico i partiti conoscono invece un declino graduale e dignitoso. Certo, anche altrove alle spalle dei primi ministri c'è la grande impresa; ma in Italia la grande impresa si annida nel corpo stesso del primo ministro. Le idiosincrasie del 'leader' italiano sono qualcosa di personale, e non è detto debbano verificarsi in altri paesi. Epperò molti elementi del caso italiano mostrano ad altri paesi democratici il proprio futuro.
Documenti tratti dal sito web dell' Editore Laterza