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Vittorio Gregotti
Se la periferia diventa centro
27 Marzo 2004
Megalopoli
Su la Repubblica del 27 marzo Gregotti informa e riflette su un saggio sulla città di Richard Ingersoll

Somiglianze o differenze. Forse è questa l´alternativa o non vi sono differenze senza somiglianze e viceversa? E´ vero e necessario che solo le condizioni estreme siano non solo significative ma addirittura obiettivi a cui aspirare?

Come si scrive ormai da quarant´anni, «oggi il 50% del mondo abita in città, e di questo il 60% si trova in situazioni di periferia esterna, mentre alla fine del XIX secolo solo il 10% del mondo era urbanizzato». Ma si tratta di una città che è però scomparsa (o in via di sparizione) come afferma lo stesso Richard Ingersoll, nell´introduzione del suo nuovo libro dal titolo Sprawltown. Sprawl significa sdraiato, senza forma, ma anche nebuloso, diffuso.

Le quantità sono un fatto ma un fatto che si deve discutere,( vedi l´intervento di Massimo Cacciari di martedì scorso ndr ) anche se sembriamo travolti dall´accelerazione con cui questo è avvenuto e la constatazione di esserne superati ci fa sembrare anche la semplice presa di coscienza dello stato delle cose un obiettivo: persino un obiettivo estetico. Ma forse un mondo molteplice, mobile, senza limite non è il mondo della libertà ma solo il mondo dell´assenza di progetto.

Non vi è solo la resa alle forze inaccessibili «della città generica che è cinicamente utilitaristica, pronta a condonare e senza etica», cioè indifferente ai vincoli, né la risposta è ritorno alla piccola comunità chiusa della città di Leon Krier. Forse le questioni sono tra loro più intricate: permanenze e cambiamenti producono una dialettica più complessa e concreta ma assai più creativa socialmente per l´architettura. La cultura della Grecia antica ha vissuto per secoli in quella romana, quest´ultima ha attraversato il Medioevo costituendone materiale ineliminabile e così via.

Il nuovo è essenziale per le differenze quanto le memorie che ne costituiscono il terreno di costituzione. Il centro storico delle città forse non è solo materiale per le cartoline turistiche e per le attività della popolazione del periurbano ricolma di futuro, ma anche luogo delle identità collettive.

E´ vero: «Gli ingredienti dello sprawl - il turismo, i centri commerciali, le tangenziali, i parcheggi, gli svincoli, i mezzi telematici, le villette, i vuoti - possono apparire brutti, ma anch´essi possono essere indirizzati verso un ulteriore obiettivo di qualità», come scrive Ingersoll ma tutto questo non solo la cultura architettonica non ha ancora trovato i modi per attuarlo ma ci attraversa il sospetto che siano proprio i massimalismi, sia quelli dell´entusiasmo per lo sviluppo senza limiti che quello dell´ideologismo ecologico non meno di quello «neohemait», ad impedirlo. Senza dialettica con il passato non vi è nemmeno progetto di futuro.

La nozione di modificazione necessaria e quella di progetto come dialogo è da molti anni collocata accanto a quella di nuovo come valore: essa non è liquidabile solo come riformista, è il fondamento di un nuovo realismo critico, l´opposto cioè del relativismo empirista (e un po´ cinico) con cui oggi si trasforma la constatazione in valore.

Detto questo, consiglio di leggere con attenzione il libro di Ingersoll, che ha come sottotitolo (che interpreto a mio modo positivamente) "Cercando la città in periferia" come stimolo progettuale, cioè in ogni modo di costituzione di ordine: anche quello che "bergsonianamente" non si vede.

I cinque capitoli che lo compongono, ciascuno commentato con una didascalica sequenza di illustrazioni, cominciano con il descrivere gli estremi della sprawltown non solo come nuova metafora della città ma come inevitabile futuro dell´aggregato-disperso urbano.

Il secondo capitolo è dedicato alla trasformazione dei centri storici a causa del turismo di massa. Nella «città-cartolina» dove il senso civico è perduto, il cittadino ideale è il turista. Peraltro due miliardi di turisti producono quasi duecento milioni di posti di lavoro. E´ al cittadino turista di se stesso che è rivolta l´evoluzione dei centri commerciali che dalla periferia si stanno ritrasferendo nei centri urbani, con una sempre più importante percentuale di coniugazione con gli stessi musei: musei shopping mall.

Questa sostituzione dell´antico centro civico offre sicurezza e sorveglianza in cambio di privatizzazione e si espande come ideologia ai modelli delle aree urbane anch´esse privatizzate: le comunità-club ad ingresso controllato come Las Colinas presso Dallas e, più in piccolo, Milano 2. Anche se la connessione con il tema della sprawltown è più indiretta, è questo il capitolo nel quale più si esercita criticamente Ingersoll.

Poi l´autore si occupa della nuova percezione dell´urbano (anche attraverso la frammentazione della visione dall´automobile anche vecchia di ottant´anni) e vede nel montaggio cinematografico lo strumento adatto a rappresentare la periferia esterna, luogo senza centralità dove tutto è sfondo e figura nello stesso tempo, forse proprio perché, proprio al contrario, la sequenza cinematografica è sommamente e rigorosamente ordinata. Il capitolo successivo è un invito ad utilizzare le infrastrutture come occasioni di progetto, anzi d´arte, «alla ricerca però di readymade urbani» piuttosto che nell´imitazione dei grandi acquedotti romani: anche se non si può negare che i nodi autostradali siano al contempo i simboli della catastrofe ecologica.

Da ultimo Ingersoll paragona la «questione ecologica di oggi» a quella ottocentesca dell´alloggio posta da Engels. Da Ernest Haeckel (il fondatore nel 1866 dell´ecologia) attraverso Rudolf Steiner e poi le attenzioni al problema di Le Corbusier e di «Broadacre City», arriva ai movimenti sociali Usa degli anni Sessanta sino al social forum di Porto Alegre. L´autore ripensa in termini ecologici all´intera storia dell´architettura moderna per arrivare a un´ipotesi dell´agricoltura come componente importante della Sprawltown.

Il testo è pieno di citazioni colte che affondano nella tradizione della modernità e si muove in tutta Europa con i propri esempi e con le differenze e somiglianze tra questa e la cultura nordamericana.

Nell´insieme una felice, positiva contraddizione rispetto al «tutto-futuro» che sembra invece essere la preoccupazione centrale dell´autore.

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