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Gaetano Azzariti
Se il governo ignora la Costituzione
3 Settembre 2011
Articoli del 2011
Del resto, si tratta di un governo, una maggioranza, e anche qualcosina in più, che considerano la Costituzione una trappola. Per le loro brame. Il manifesto, 3 settembre 2011

Dilettanti al potere. Un governo e una maggioranza non solo incapaci di gestire i conti pubblici e di prospettare una coerente manovra di risanamento economico-finanziario, ma anche del tutto privi della necessaria cultura costituzionale di governo. Tutti i punti qualificanti la manovra d'agosto sollevano infatti delicate questioni di compatibilità con la nostra Costituzione. A iniziare dalla goffa proposta di cancellare il riscatto degli anni di studio e di quello dedicato al servizio militare, senza porre mente al fatto che una tale misura si prospettava in evidente conflitto con alcuni principi di fondo del sistema giuridico: dal principio generale del «giusto affidamento» del cittadino alla violazione di diritti acquisiti. Per non dire della discriminazione tra i sessi che, forse per la prima volta nella storia della repubblica, avrebbe penalizzato gli uomini anziché le donne.

Ma anche quel che è rimasto della manovra mostra una generalizzata ed evidente insensibilità ai limiti che la nostra Costituzione impone alla politica e all'economia. Così, il contributo di solidarietà, che è restato solo per i dipendenti pubblici, appare misura eticamente riprovevole in un paese che ha il più alto tasso di evasione ed elusione fiscale, finendo per penalizzare unicamente chi già fornisce una piena e leale contribuzione in base al proprio reddito. La violazione del principio d'eguaglianza è palese, discriminando tra lavoratori pubblici e privati. E poi basta leggerla la costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Se solo alcuni, a parità di reddito, sono tenuti a contribuire è evidente che si passa da un sistema progressivo di tassazione a un sistema che discrimina in base alla categoria di appartenenza, violando gli articoli 3 e 53 della Carta.

Anche l'eliminazione dei vantaggi fiscali per le cooperative non sembra tener conto di quanto espressamente scrive il nostro testo costituzionale. L'articolo 45 riconosce la funzione sociale della cooperazione e rinvia alla legge la «promozione» per assicurarne i caratteri e le finalità specifici. È perciò che non possono porsi sullo stesso piano le coop e le società di capitali, le quali peraltro hanno meno vincoli e possono liberamente operare sul mercato. Sebbene sia evidente che il carattere di mutualità e l'assenza di fini di speculazione privata del sistema cooperativo è un orizzonte che fuoriesce dalla «cultura» mercantilistica dell'attuale maggioranza, il punto è però che in questo caso un'equiparazione, almeno per i profili fiscali, tra soggetti diversi (spa e coop) non appare conforme a costituzione.

Non solo le misure definite a Arcore appaiono costituzionalmente improponibili. E' l'intero decreto legge originariamente proposto a mostrare una collezione di criticità costituzionali. Così l'articolo 4 stabilisce norme per la privatizzazione del servizi pubblici locali, riproponendo disposizioni analoghe, se non identiche, a quelle abrogate per via referendaria (il primo dei quesiti su cui siamo stati chiamati a votare), con evidente elusione della volontà popolare e in spregio a quanto stabilito dalla Costituzione in materia referendaria (art. 75).

Anche per quanto riguarda i tagli agli enti locali si pone una delicata questione. Questi tagli, secondo la denuncia di tutti i rappresentanti delle istituzioni regionali e comunali, finirebbero per compromettere i primari servizi sociali, quei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». In proposito, la Costituzione stabilisce una regola aurea. Quando vengono messi in discussione tali «livelli essenziali» spetta, in via esclusiva, allo Stato centrale provvedere. Invece l'unico problema del governo pare sia quello di ridurre il deficit e sottrarre i finanziamenti agli enti locali, disinteressandosi del fatto che in tal modo si finiscono per compromettere i diritti dei cittadini, in evidente conflitto con il carattere «sociale» della nostra democrazia costituzionale.

Infine, il governo, con allegra disinvoltura, ha voluto approfittare del decreto rivolto al risanamento della finanza pubblica per introdurre una disciplina che ha tutt'altro scopo. All'articolo 8 viene regolata la contrattazione collettiva di lavoro, estendendo quella aziendale a scapito di quella nazionale. La questione è assolutamente controversa politicamente, mi limito in quest'occasione a rilevare l'improprietà costituzionale della misura prevista. Sia per ragioni di metodo sia per ragioni di merito. Per quanto riguarda il metodo sono note le reiterate sollecitazioni del Capo dello Stato ai governi di evitare di adottare decreti legge «eterogenei», contenenti cioè norme non collegate direttamente all'oggetto specifico del decreto. Le giuste critiche presidenziali sono mosse dalla convinzione che non si possano introdurre discipline normative abusando della Costituzione, approfittando cioè dei tempi rapidi e della scarsa possibilità di discussione che il parlamento ha in sede di conversione dei decreti, in assenza peraltro dei requisiti della straordinaria necessità e urgenza. In questi casi deve essere seguita la via ordinaria del disegno di legge autonomo. Eppure a questo governo deve essere apparso più comodo introdurre una norma che ha per oggetto le relazioni sociali e non invece il risanamento del debito pubblico e che non ha alcun presupposto d'urgenza; con buona pace della corretta applicazione della Costituzione e delle sollecitazioni del Quirinale. Ma è anche nel merito che la normativa appare costituzionalmente discutibile. L'ambito di contrattazione aziendale, s'è detto, viene esteso, potendosi spingere a regolare praticamente l'intera organizzazione del lavoro, nonché le modalità di assunzione e di recesso dal rapporto di lavoro. Ciò impone due parallele riflessioni: da un lato c'è da dubitare che la contrattazione possa sostituire un'adeguata disciplina normativa (l'ha rilevato anche la Banca d'Italia), lasciando alle parti la disponibilità dei diritti dei lavoratori; dall'altro bisogna domandarsi se non c'è il rischio che in tal modo finiscano per venir compromessi i diritti costituzionali indisponibili. I precedenti (i contratti aziendali Fiat) lasciano prevedere il peggio: l'ammissibilità delle cosiddette clausole di responsabilità e la possibilità di definire le «conseguenze» del recesso aprono la porta alla negoziazione anche dei diritti del lavoro che la Costituzione tutela direttamente e che non possono essere «contrattualizzati».

Insomma, l'intera manovra appare lontana da ogni preoccupazione d'ordine costituzionale. Sarebbe auspicabile che le forze di opposizione si richiamassero alla cultura costituzionale che deve improntare ogni atto dei poteri pubblici in uno stato democratico e pluralista. Molte delle incongruenze e l'iniquità complessiva della manovra si spiegano anche in tal modo. Il rispetto dello spirito della Carta avrebbe imposto una manovra non meno incisiva, ma almeno improntata ai criteri della progressività (art. 53) e della redistribuzione delle risorse (art. 3, secondo comma).

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