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Francesco Erbani
Se il gesto delle grandi star diventa vita quotidiana
2 Settembre 2012
Articoli del 2012
Uno sguardo alla XIII biennale veneziana di architettura. “Common ground”: l’architettura non è spettacolo individuale, ma valore collettivo. La Repubblica, 2 settembre 2012 (m.p.g.)

Nella prima sala dell’Arsenale tre pannelli di Bernard Tschumi potrebbero servire da introduzione a “Common Ground”, la mostra sulla quale si impernia la tredicesima Biennale Architettura. Hanno l’aspetto di un manifesto pubblicitario, sono divisi a metà (Tschumi li realizza dagli anni Settanta). In uno compare, da una parte, il Guggenheim di New York con la didascalia “common ground”, dall’altra, un edificio che sembra un parcheggio e che simula quello di Frank Lloyd Wright. Didascalia: “common place”, un posto comune.

“Common Ground” sta invece per terreno comune, ha più volte sostenuto il direttore dell’edizione di quest’anno, David Chipperfield. Più che l’edificio come spettacolo individuale, ha insistito l’architetto inglese, deve risaltare il lavoro come valore collettivo. Continuità, contesto e memoria. Deve emergere un oggetto che fondi uno spazio pubblico, attrattore di comunità (il Guggenheim lo è, il parcheggio no). E in effetti l’edizione appena inaugurata (e aperta fino al 25 novembre) sollecita i 69 espositori che, spesso raggruppati, arrivano a 119 progettisti, a non esibire il prodotto di un’azione individuale, bensì a mostrare un intervento concepito o in gruppo o come frutto di un’iniziativa culturale e anche sociale più ampie.

È un’esigenza che da qualche tempo viene rimarcata, quasi a voler sbiadire l’immagine di un’architettura come gesto geniale e bizzarro, adatto più all’intrattenimento che alla vita quotidiana. Non sempre alle parole corrispondono intenzioni e progetti. A Venezia, fra i Giardini e l’Arsenale, la varietà di interpretazioni è molto ampia, forse più ampia di quella che aveva in mente Chipperfield. “Common Ground” può essere articolato da Zaha Hadid esibendo minutamente le proprie ricerche sulle superfici curve, ondulate e mostrando le referenze storiche e culturali di questo lavoro.

Ma, appena più in là, l’indiana Anupama Kundoo riproduce in scala 1:1, a grandezza naturale quindi, la Wall House, la semplicissima casa che ha costruito nel sud del suo paese mescolando materiali, tecniche artigianali e hitech, portando dall’India manovali che non erano mai usciti dai confini nazionali e mettendoli a lavorare con studenti veneziani e australiani. Per Zaha Hadid il “Common Ground” è una relazione nel tempo, storico- culturale e professionale. Per Anupama Kundoo è la condivisione di un’idea dell’abitare, ha un preminente respiro sociale (ma anche tecnico: i mattoncini usati richiamano con evidenza il rivestimento delle colonne dell’Arsenale). Inoltre, la grandezza naturale è anche una sfida alla logica della mostra d’architettura: niente rilievi, plastici o progetti, ma un prodotto finito che chiunque, soprattutto i non addetti, può visitare, valutare e apprezzare.

Il “Common Ground” può essere il piano urbanistico di Vittorio Magnano Lampugnani per armonizzare i progetti di tanti big impegnati a realizzare il campus per un colosso farmaceutico o l’installazione di Norman Foster: sul pavimento di una stanza oscurata si proiettano e si intrecciano i nomi di grandi architetti del passato più o meno recente, le pareti pulsano di immagini di spazi pubblici – piazze, stadi, teatri… - animati da folle. Per il gruppo Fat il “Common Ground” è sintetizzabile nel concetto di copia: copiare un edificio è un modo per diffondere, nello spazio e nel tempo, modelli architettonici. Un esempio? La Rotonda di Palladio, che copia ed è a sua volta copiata. Un gruppo di cinque architetti di Detroit, invece, ricostruisce con lo stesso lievito culturale di Anupama Kundoo, ma con diversi esiti e sempre in dimensioni reali, una casa abbandonata nella ex capitale dell’auto e acquistata a un asta per appena 500 dollari (potenza della bolla immobiliare).

L’interno è integralmente reinventato, colorato e arricchito dalla documentazione di una città che, giunta sull’orlo del baratro, prova a rigenerarsi. Condivisione, collaborazione, spazio pubblico spiccano anche nelle installazioni lungo la Ruta del Peregrino, una strada di pellegrinaggio religioso in Messico (fra i progettisti, Ai Weiwei e il cileno Alejandro Aravena dello studio Elemental).

La crisi, nata da un eccesso di offerta immobiliare, e l’impoverimento di parte del mondo non possono che contagiare anche una mostra d’architettura (assecondando le direttive di Chipperfield).

Giovanissimi architetti spagnoli in tuta bianca mostrano i progetti che sono rimasti chiusi in un cassetto e raccontano sé stessi, professionisti senza lavoro. Due grandi stelle del firmamento internazionale, Herzog & de Meuron, esibiscono il plastico di un auditorium ad Amburgo, bloccato a fine 2011 per i costi schizzati alle stelle e per contrasti fra loro, l’impresa e l’amministrazione pubblica. Alejandro Aravena espone i piani per ricostruire una comunità distrutta dallo tsunami del 2010 (un lavoro analogo, ma per il Giappone, lo presenta Kazujo Sejima) e per consentire una migliore accessibilità all’acqua in una località poverissima, dove le forti disparità economiche avevano causato violente proteste.

L’idea di architetture a misura di territorio e di paesaggio arriva fin dentro il Padiglione Italia, curato da Luca Zevi, ma, restando alla mostra di Chipperfield, il “Common Ground” che raccoglie molte delle interpretazioni possibili, è il progetto di Urban-Think Tank, giustamente premiato dalla giuria: un ristorante nella Torre de David, un grattacielo incompiuto di quarantacinque piani a Caracas, in Venezuela, costruito per una banca, ma poi, fallita la destinazione, occupato da migliaia di famiglie e diventato una “favela verticale”. Uno spazio pubblico prestato dall’architettura per fare comunità fra i più poveri del mondo.

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