La Dichiarazione d’indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 inizia con un’enfatica dichiarazione. Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c’è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).
La (ricerca della) felicità è uno dei grandi temi che ha caratterizzato, nel suo insieme, il secolo XVIII, dal punto di vista morale e politico. La Dichiarazione d’indipendenza è figlia di quel tempo e, come vedremo, di quella terra. Il secolo successivo è stato molto più prudente. Anzi: la felicità come meta della vita individuale e collettiva è stata piuttosto associata all’infelicità, in una sorta di coincidentia oppositorum. Per gli individui, è fonte d’inquietudine e di aspirazioni mai stabilmente soddisfatte. Per le società, è fonte di forze distruttive, operanti su larga scala. Possiamo farci aiutare da un testo classico, che non cessa di stupire per la sua fecondità, Il Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si dice, di solito, che il dialogo dell’Inquisitore col Cristo silente tratta di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini. In realtà, ancor prima è un discorso sulla felicità e sull’infelicità: l’infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Leggiamo. Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c’è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la loro libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell’umanità, coloro che la libereranno dall’oppressione della libertà cioè da quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell’infelicità umana. Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?
Che la libertà sia un peso è quasi un luogo comune. Che questo peso, almeno nella letteratura reazionaria basata sull’idea della corruzione della natura umana, possa essere sopportato solo da uomini superiori e non dalla massa, anche. La massa è fatta da schiavi con la costituzione del ribelle, dice l’Inquisitore: in quanto ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone. L’Inquisitore avrebbe certamente detto che il diritto "americano" di cercare la felicità era in realtà la condanna all’infelicità. Dovrà regnare la felicità, sì, ma la dovrete ricevere da noi, gli Inquisitori, che ve la amministreremo nella misura che vi è consona .
Ma quale felicità? La felicità consiste nell’aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà. Non s’intende qui la libertà come possibilità di scelta di convenienza; della libertà, per così dire economica, legata semplicemente a preferenze, la libertà del consumatore, per intenderci. Stiamo parlando di ben altra cosa, della libertà di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza. È questa, non l’altra, la libertà che deve essere tolta all’essere umano per renderlo felice.
Non è forse questo il segreto di un certo tipo di dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati nei piccoli loro desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra avere sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l’altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l’oggetto del desiderio.
Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. "Il faut les embêter". L’altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l’instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.
Sigmund Freud, nel celebre scritto del 1920 su Il disagio della civiltà parla di felicità, infelicità e istituzioni con riguardo alla psiche umana e dice: «Non vogliamo ammetterla [l’infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti. […]. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Con queste parole, si tocca il punto centrale: il rapporto tra felicità e sicurezza. La massima (ricerca individuale della) felicità comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quando ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è condicio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l’assoluto divieto della (ricerca individuale) della felicità.
Che dire allora? Che per vivere in società dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? Non sia mai. Ogni società è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità. Come permettere la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani? La formula della Dichiarazione d’indipendenza americana, dalla quale abbiamo preso spunto per queste considerazioni, è l’espressione genuina del più ingenuo ottimismo del secolo dei "lumi". Poteva forse corrispondere a una possibilità effettiva in società come quella delle tredici colonie che non conoscevano confini. O meglio: società dove lo spazio non costituiva limite e condizione. Il viaggio a occidente per cercare fortuna era la prospettiva per una ricerca della felicità che poteva svolgersi senza conflitti (le popolazioni autoctone non facevano problema). Questo era il mito americano, così intimamente legato al miraggio della felicità.
Ma negli "spazi pieni"? Lo spazio pieno è quello in cui ogni spostamento di uno comporta lo spostamento di altri. È, da secoli, la condizione europea. Ma gli spazi sono ormai saturi anche in America dove, oggi, le frontiere, non più allargabili, sono presidiate dalla forza pubblica.
Che cosa si deve concludere, allora? Che la ricerca della felicità, qui e oggi, è impossibile? Che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente? Che la profezia del Grande Inquisitore o il "disagio della civiltà" ci condannano alla passività e all’immobilità?
Sopra tutto, notiamo uno spostamento, anzi un rovesciamento di senso. La ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli [nel testo a stampa manca la parola – ndr] cioè degli oppressi. Basta leggere il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza. Oggi, il senso s’è rovesciato. Sono i potenti, i "Prominenten", che la rivendicano come diritto, la praticano e l’esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il suo bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece che felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia. Negli spazi pieni, la felicità nel senso della Dichiarazione citata all’inizio è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia, non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d’oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con quest’ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un’aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia, è un’aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma delle politiche collettive. Una conclusione certo inquietante. Sullo sfondo c’è lo stato-provvidenza, uno stato che ha tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti. Così è che, nella ricerca dell’equilibrio tra libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno alla coscienza che è l’obbligo legale.
Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale; è "le bonheur de tous". Tra questi "tutti", la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell’uno non diventi infelicità degli altri. Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti di libertà previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" nel senso anzidetto è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all’illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.
Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo "Felicità. La possibilità del bene" che terrà domenica a Modena nell’ambito del Festivalfilosofia