loader
menu
© 2024 Eddyburg
Giorgio Falco
Se garage e fienili raccontano l'Italia
9 Agosto 2011
Recensioni e segnalazioni
L’opera fotografica di Guido Guidi inA new map of Italy a cura di John Gossag, recensita dal romanziere italiano che ci ha raccontato lo sprawl nazionale. La Repubblica 9 agosto 2011 (f.b.

Capannoni, cantieri, chiodi, mattoni, taniche, tubi, viti, garage prefabbricati, ex zuccherifici, silos, aie, fienili, cortili, muri di contenimento, recinzioni, cancellate, pali della luce, colonne di cemento armato che, nella loro scrostatura, rivelano un fantasma di ferro, trucioli avanzati da un taglio in segheria, il tornio di un’officina quando entra la luce da fuori, e scantinati di università o aule studio dimesse, la sedimentazione delle cose, e le persone. Sono alcuni frammenti del mondo di Guido Guidi. Nato a Cesena nel 1941, Guidi ha partecipato a Viaggio in Italia, la mostra curata, tra gli altri, da Luigi Ghirri nel 1984. Ha fotografato le opere di Le Corbusier, van der Rohe, e Carlo Scarpa, di cui è stato allievo; le case popolari dell’Ina, i bunker europei della Seconda Guerra Mondiale, i cantieri emiliani della Tav, l’industria a Marghera, e molto altro.

La peculiarità di Guidi consiste nell’aver fotografato coerentemente luoghi, oggetti, animali, persone, come se stesse fotografando – con l’esattezza formale, ma con la vertigine di un dubbio – l’Italia dietro casa, il suo vissuto, in una frazione di Cesena; il tragitto che si stende lungo la Strada Statale Romea, da Ravenna a Venezia, i due centri dove l’artista – all’Accademia ravennate e allo Iuav veneziano – ha insegnato fotografia per anni. L’editore americano Loosestrife – con la cura di uno dei maggiori fotografi statunitensi, John Gossage – dedica a Guidi un ampio volume antologico: A new map of Italy. L’Italia di Guido Guidi è l’Italia laterale, rimossa dagli stessi residenti, la nazione abitata raramente dagli artisti, se non per brevi periodi, utili a concludere un progetto, in attesa della prossima incursione.

E qui sta la differenza tra coloro che attraversano, e coloro che, viceversa, vivono quei luoghi, giorno dopo giorno, fino a farne non solo la visione della propria arte, no, fino a farne la propria esistenza: sentirsi fratello di un palo della luce lungo la strada provinciale, di un mattone che ti guarda, di un animale morto e deposto da un ciclista amatoriale sopra la linea bianca continua. L’Italia di Guidi è la nazione passata dalla civiltà contadina a quella industriale. Il fotografo cerca, usando le parole di Paolo Costantini, «di esplorare un nuovo paesaggio della modificazione», traccia provvisoria di noi stessi, riscrivendo gli spazi gracili in cui viviamo, sebbene utilizzi il mezzo che dovrebbe congelare quei luoghi, il mezzo a cui dovremmo chiedere la fissità negata dalla vita. Possiamo dire che l’opera di Guidi sia la sommatoria di due sottrazioni: gli avanzi del mondo contadino e le scorie del mondo industriale.

Due sparizioni restano nella materia residuale, declinante, e sono l’Italia, il brulicare sommerso, l’intersecarsi dei segni, nei luoghi dell’abbandono. «Tra un paracarro e un capitello, fotografo un paracarro: fotografo quello che c’è», dice Guidi. «Mi interessa il paracarro: chi l’ha costruito e chi l’ha usato, lo splendore e lo sfaldamento, non il passato glorioso». Cose, animali e persone hanno uguale dignità e rispetto nelle immagini del fotografo. Ciò non significa mettere tutto sullo stesso piano, in un’equivalenza indistinta. Il paracarro ha senso solo se inserito dentro un’immagine colta, risolta, e per Guidi un paracarro sta nella tradizione pittorica italiana e nella fotografia, soprattutto quella di Walker Evans.

Guido Guidi procede in una sorta di continuità, accetta il testimone del fotografo americano ma, mentre Walker Evans negli anni ‘30 del Novecento ha colto con la sua opera un’età prima del collasso, il lavoro di Guidi, al contrario, non certifica alcun crollo clamoroso. Suggerisce una malattia continua, debilitante, che costituisce l’essenza stessa del nostro vivere. Una febbriciattola, 37,2 di temperatura, che muta in lievi oscillazioni e smottamenti silenziosi. Questo senso di leggero spossamento è sottolineato dal colore. Anche per una questione geografica, paiono evidenti i rimandi a Deserto rosso. «Sì, Antonioni mi ha influenzato. Ma, per il colore, mi sento più vicino a Morandi, quando lasciava i pigmenti al sole, per farli essiccare, e sembrava che il sole avesse lavorato, consumandoli».

Nelle immagini di Guidi, il colore dopo il processo di stampa è sbiadito, vicino alla liquidità: è come se fosse usurato dalla luce, è il colore della luce quando diventa stato mentale, utile per mantenere la giusta distanza, necessaria all’allenamento del vedere. E così, se passate su qualche strada laterale attorno a Cesena o a Ravenna, e incontrate sul bordo della strada un essere formato da un cavalletto a tre gambe di ferro e due gambe di uomo, la testa nascosta sotto un panno nero, state tranquilli: non è una nuova forma di brigantaggio o di autovelox, è Guido Guidi, che sta cercando di ricomporre la mappa del nostro mondo, se stesso nell’immagine di noi, che lui guarda stupito, come se fosse la prima volta.

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg