Non si tratta soltanto di una figuraccia, un'altra brutta o pessima figura a livello internazionale. Questa volta è qualcosa di più e di peggio. E l'intervento immediato del presidente della Repubblica, con l'invito a tutelare l'economia rispettando l'ambiente, lo conferma in modo formale. L'opposizione del governo italiano al "pacchetto verde" dell'Unione europea non è la solita gaffe di Berlusconi, sempre pronto a contraddirsi e a smentire se stesso. Qui siamo al rifiuto ideologico; al boicottaggio programmato delle misure per contrastare l'effetto serra, con tutti i danni che ne derivano per l'ambiente, per la salute dei cittadini e in fin dei conti anche per la produzione e per l'economia.
Ma il peggio è che questa linea è ispirata e sostenuta ufficialmente dai vertici di Confindustria, con un atteggiamento tanto miope quanto corporativo, in un riflesso condizionato dalla crisi finanziaria e dalla recessione incombente. Quasi che i nostri imprenditori, incalzati dall'altalena delle Borse, allarmati dalla riduzione dei consumi e forse anche allettati dall'annuncio degli aiuti di Stato, subissero una sorta di "richiamo della foresta" e volessero tornare indietro di venti o trent'anni, per salvaguardare la sopravvivenza delle loro aziende a scapito dell'emergenza ambientale.
L'ecologia come optional, insomma, se non proprio come costo aggiuntivo. Un extra, un accessorio di cui si può fare anche a meno pur di risparmiare e conservare i margini di profitto. O magari, un lusso che in questo momento non possiamo permetterci.
Con un ministro dell'Ambiente come Stefania Prestigiacomo, di cui i giornali sono costretti a parlare quando finisce fuori pista con l'aereo di servizio più che per i servizi resi al Paese, il governo di centrodestra tende naturalmente a identificarsi con gli interessi prevalenti dell'industria, rinunciando così a una responsabilità di mediazione e di guida in funzione dell'interesse collettivo. In sincronia con l'andamento dei mercati, il crollo dell'attenzione e della sensibilità ambientalista costituisce ormai una tendenza o una deriva generale, un "main stream", una corrente dominante di fronte alla quale non c'è ragionamento o calcolo che regga.
È una regressione culturale che minaccia di isolare l'Italia dal resto dell'Europa e di produrre per di più gravi danni alla nostra economia, come ha avvertito ieri Francesco Rutelli dalle colonne di "Europa", dichiarando la disponibilità dell'opposizione ad appoggiare il governo per negoziare al meglio le condizioni per il nostro sistema produttivo. Ma bisogna riconoscere che in qualche misura questa è anche la conseguenza di un ambientalismo radicale e massimalista, a cui il centrosinistra non ha saputo contrapporre finora un valido e convincente progetto riformista. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Quando il commissario europeo all'Ambiente, Stavros Dimas, contesta pubblicamente le stime del governo italiano in ordine ai costi del "pacchetto ambientale", in realtà scopre un bluff destinato a durare solo una mano di gioco. In base ai suoi conti, il nostro Paese dovrebbe spendere fra i 9,5 e i 12,3 miliardi di euro all´anno per combattere l'effetto serra, vale a dire l'inquinamento e il mutamento del clima, mentre è uno di quelli che farebbe l'affare migliore per la conversione e il rilancio di un'industria moderna, in grado di competere sul mercato globale. E intanto, nel giro di quarantotto ore, il presidente del Consiglio parla prima di 25 e poi di 18 miliardi, come se fosse una trattativa commerciale, una compravendita immobiliare o l'acquisto di un calciatore.
Non è stato proprio lui, del resto, a dichiarare trionfalmente pochi giorni fa che la crisi finanziaria era risolta e che l'economia reale non ne avrebbe risentito? Ecco invece le Borse che continuano ad andare su e giù come sull'ottovolante. Ed ecco le imprese giustamente preoccupate per il trend negativo dei consumi che tocca perfino quelli essenziali, come i prodotti alimentari o l'abbigliamento. Forse sarebbe ora che qualcuno lo sfidasse apertamente, il presidente Berlusconi, richiamandolo alla promessa di ridurre le tasse per sostenere i bilanci delle famiglie che non arrivano alla fine del mese e quelli delle piccole e medie imprese.
Per un Paese come il nostro, povero purtroppo di materie prime e straordinariamente ricco di risorse naturali, artistiche e culturali, la centralità della "questione ambientale" rappresenta al contrario una scelta obbligata. Questo è il maggior investimento che possiamo fare sul nostro presente e sul nostro futuro, anche al di là delle ragioni vitali che lo impongono. E non solo per quella che rimane tuttora la prima industria nazionale, cioè per il turismo e per il suo indotto; bensì per tutto il "made in Italy", per l'industria della qualità, dello stile e della creatività; per quella della trasformazione, del valore aggiunto, della moda, del design e magari dell'elettronica, dell'informatica, della bioingegneria o della biomedica.
Piuttosto che rinnegare l'impegno in difesa dell'ambiente, e quindi della salute collettiva, l'Italia dovrebbe rilanciare semmai la ricerca e la sperimentazione sulle fonti alternative: quelle che - come il sole e il vento - madre natura mette gratuitamente a nostra disposizione, per abbattere le emissioni nocive. E poi sviluppare l'applicazione su larga scala dell'idrogeno, come vettore di energia verde. Magari sfruttando il laboratorio delle nostre "isole minori" dotate in abbondanza di queste risorse, per conciliare un tale programma anche con la tutela del paesaggio, secondo il Protocollo d'intenti sottoscritto recentemente a Capri dal ministero dei Beni culturali e dall'associazione Marevivo.
Fu proprio da una piccola isola italiana, Ventotene, che partì nel 1941 l'idea dell´Unione europea con il "Manifesto" di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. E quella non sembrò allora meno utopistica di quanto appaia oggi l'energia pulita, naturale, rinnovabile.