il manifesto, 27 giugno 2017
BANCHE VENETE:
PERDITE PUBBLICHE,
PROFITTI PRIVATI
di Riccardo Chiari
«Credit crack. Da Bloomberg a Nomura, unanimi i commenti del mondo finanziario: lo Stato paga i crediti inesigibili e anche Intesa, che guadagnerà tanto senza spendere un centesimo. Il Wall Street Journal: "Un passo indietro per la finanza europea". Sinistra italiana e Rifondazione accusano: "L'alternativa c'era, il governo poteva gestire la parte buona delle banche".
Ora che il decreto legge c’è, i 17 miliardi di soldi della collettività messi dal governo Gentiloni, a sostegno di almeno 10 miliardi di crediti inesigibili, e per altri 5 miliardi a sostegno di un’azienda privata come Banca Intesa, non sembrano scuotere troppo gli italiani. Ma provocano alcune elementari domande all’estero. Da antologia la comparsata di Pier Carlo Padoan a Bloomberg Tv, che doverosamente chiede “se l’operazione sulle banche venete pubblicizzi le perdite per privatizzare i profitti”. “Sono in totale disaccordo – replica il ministro italiano – non è un salvataggio, tutto è stato fatto secondo le regole”, sottolineando l’ok della Bce e di Bruxelles.
Dal canto suo il Wall Street Journal annota: “La soluzione europea pone due domande: perché le due banche non sono state trattate con il nuovo regime di risoluzione, e perché Intesa San Paolo si è aggiudicata un accordo così buono sugli asset delle due banche. La risposta alla prima domanda è pragmatica e gli investitori possono imparare da questa. La risposta alla seconda è più preoccupante, e sembra un passo indietro per la finanza europea”. A corredo, il Wall Street Journal precisa che secondo gli analisti l’accordo rafforzerà gli utili di Intesa del 5-7% entro il 2020, senza costare alla banca un centesimo in termini di sforzo finanziario.
I giapponesi di Nomura parlano apertamente di bail out, cioè di un salvataggio a totale carico dello Stato. E in effetti all’ok di Francoforte alla liquidazione delle due banche con lo smaltimento delle sofferenze grazie all’intervento statale, si è aggiunto anche il finanziamento con soldi pubblici per l’acquisizione di Intesa della parte sana delle banche, “per riorganizzarle”. Leggi costo degli esuberi. Gian Maria Gros Pietro ai comprensivi microfoni del Gr1 nega: “Chi dice che Intesa è stata avvantaggiata non ha compreso il meccanismo”. Nel decreto del governo si legge però che Intesa riceverà dallo stato un “supporto finanziario” per “un importo massimo di 3.500 milioni”, “risorse a sostegno delle misure di ristrutturazione aziendale per un importo massimo di 1.285 milioni” con cui accompagnerà all’uscita circa 4mila bancari, e altri 400 milioni come garanzia sui crediti in bonis che Intesa si porta a casa. Poi vanno aggiunte garanzie a copertura del rischio dei crediti che non risultino in bonis, fino a 6,3 miliardi, e fino ad altri 4 per i crediti “in bonis ma ad alto rischio”. Per giunta Intesa entra nel mercato del credito veneto con il 30% degli sportelli. Dominante.
Risultato: a Piazza Affari salgono i bancari, spinti proprio da Intesa (+3,5%), il che equivale ad un aumento di circa 1,5 miliardi della sua capitalizzazione. Mentre fa capire un po’ più dell’Italia odierna il fatto che le osservazioni di Bloomberg siano identiche a quelle di Sinistra italiana e Rifondazione: “Si procede con un salvataggio in cui la logica della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite è spinta a livelli parossistici”, segnalano Maurizio Acerbo e Roberta Fantozzi del Prc. Con Stefano Fassina e Pippo Civati di Si che aggiungono: “Si poteva e doveva percorrere un’altra strada, anche a costo di un contenzioso con la Commissione Ue: l’ingresso pubblico nel capitale delle banche per gestire, insieme ai crediti in sofferenza, anche gli asset”. Che genereranno utili. Ma Paolo Gentiloni avverte: “Chi parla di regalo ai banchieri fa solo cattiva propaganda”. E Intesa fa sapere a sua volta che, se il decreto cambia anche solo di una virgola, (“viene convertito con modifiche o integrazioni tali da rendere più onerosa per Intesa San Paolo l’operazione”), non se ne farà di nulla. Capito come si fanno gli affari?
TANTA POLVERE MESSA
SOTTO AL TAPPETO,
MODIFICHEREMO IL DECRETO
di Massimo Franchi
«Intervista a Francesco Boccia. Il salvataggio delle banche Venete è l'ultima tappa di una strategia fallimentare. Il sistema andava messo in sicurezza nel 2014 come in Spagna e Germania. Invece si è sottovalutata colpevolmente la situazione e ora i miliardi pubblici usati sono molti di più»
Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio della Camera. Da economista prima che da politico: il salvataggio delle banche venete è la soluzione migliore come dicono Bankitalia e Padoan o uno scempio di soldi pubblici e un regalo ad Intesa come dice l’opposizone?
Una delle cose che detesto dei politici è sentir dire: «Io l’avevo detto». Ma visto che sono agli atti i miei interventi parlamentari in cui già nel 2014 chiedevo che venisse istituito un Fondo pubblico-privato da 20 miliardi per ricapitalizzare le banche in difficoltà chiedendo un chip ai tanti intermediari finanziari che hanno fatto soldi con il nostro debito pubblico (Morgan Stanley, Black Rock e gli altri fondi) e mi diedero del folle, ora posso dire che avremmo risparmiato molti miliardi di soldi pubblici.
Quindi la colpa è della politica? E i mancati controlli di Bankitalia?Che le banche Venete andassero salvate è indubbio perché diversamente sarebbe andato in crisi un pezzo fondamentale di Paese. La colpa di questa situazione non è dei correntisti o dei risparmiatori, ma di quei disgraziati che le dirigevano. Tanta polvere è stata messa sotto il tappeto e se siamo in questa situazione è anche perché il sistema di controllo di Bankitalia non ha funzionato, come Visco ha riconosciuto iniziando a fare autocritica. Io sono indignato per lo “stop and go” sugli interventi per mettere in sicurezza tutti gli istituti in difficoltà, dalle popolari a Mps, salvate con tre modelli differenti di interventi. La nazionalizzazione sarebbe stato il quarto e avrebbe aumentato la confusione.
Padoan confida di recuperare i 5 miliardi già usati rivendendo i crediti deteriorati della bad bank. Le sembra realistico?Non conosco l’ammontare effettivo dell’esborso pubblico e dei crediti deteriorati. Di sicuro di tutti i soldi messi dallo Stato direttamente e indirettamente (con le partecipazioni di Cassa depositi e prestiti) in questi anni non si recupererà tutto e il saldo sarà maggiore dei 10 miliardi da me proposti.
Intesa San Paolo ha già avvertito: se il decreto cambia, l’operazione salta. Voi lo cambierete? Non vi sentite sotto ricatto come parlamentari? Le banche sono al di sopra dei poteri costituzionali?
Messina fa bene il suo mestiere a dire quelle cose. Non conosco, come nessuno ancora, il testo del decreto ma dico che se ci sono le condizioni per migliorare la proposta del governo, il Parlamento ha il dovere di farlo e Intesa di rispettare la politica, che – senza ipocrisia – è la stessa che l’ha invitata a fare questa operazione e a mettere i soldi nel fondo Atlante già prosciugato. La priorità deve essere quella di ripristinare la fiducia dei risparmiatori senza la quale tutte queste banche sarebbero già morte. Intesa da questo punto di vista è una garanzia: è una delle più solide in Europa anche se non potrà risolvere sempre lei i problemi o rischierà di entrare in difficoltà anch’essa.
Il ministro spagnolo dell’Economia sostiene che quello che è successo la Spagna lo ha fatto nel 2012: mettere in sicurezza il sistema usando miliardi pubblici, mentre ora per il Banco Popular non ne sono stati usati. Siamo in ritardo di 5 anni?
Certo che ha ragione. E l’errore più grosso fatto dai nostri governi dell’epoca – Berlusconi con Tremonti e Monti con Grilli – è stato quello di non copiare la Spagna che come la Germania hanno anticipato l’applicazione del bail in mettendo in sicurezza le banche con soldi pubblici. Sarà interessante ascoltare i protagonisti di questa lunga storia nella commissione parlamentare che andrà imbastita in questa legislatura e darà risultati nella prossima.
PRIMA LE BANCHE,
POI I BAMBINI
di Marco Bersani
«Governo. L'operazione banche venete sarà finanziata con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento lo scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio degli istituti bancari da mettere a carico del debito pubblico»
Dopo aver sostenuto per mesi che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca necessitavano di una «ricapitalizzazione precauzionale», ovvero che erano banche fondamentalmente «sane», ma bisognose di un ulteriore supporto, il governo Gentiloni-Padoan ha improvvisamente cambiato idea, dichiarandole fallite e ponendole in liquidazione.
Il Consiglio dei Ministri ha così approvato un decreto legge che prevede l’acquisizione – costo 1 euro – da parte di Intesa Sanpaolo delle due banche venete e il premier Gentiloni ha subito lanciato un accorato appello perché «questa decisione molto importante trovi in Parlamento il sostegno che merita, cioè il più ampio possibile».
Intanto, Carlo Messina, Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo davanti allo specchio loda se stesso per aver «messo in sicurezza oltre 50 miliardi di risparmi affidati alle due banche e tutelato 2 milioni di clienti, di cui 200.000 aziende operanti in aree tra le più dinamiche del Paese». Senza dimenticare giuramenti a ripetizione sulla tutela dei posti di lavoro.
Poteva mancare il sostegno della generosa Unione Europea? Certo che no: l’improvvisamente federalista Margarethe Vestager, Commissaria Ue alla Concorrenza, considera l’aiuto di Stato «necessario per evitare tensioni economiche nella regione del Veneto». Due banche in gravissime difficoltà finanziarie, un colosso bancario le annette, istituzioni italiane ed europee d’accordo: qual è il problema?
Uno solo: il tutto è a carico della collettività, ovvero lo paghiamo tutte e tutti noi.
Il decreto prevede infatti, una spesa immediata da parte dello Stato di 5,2 miliardi per garantire a Intesa Sanpaolo rischio zero su tutta l’operazione e 12 miliardi di garanzie pubbliche sui futuri rischi.
In pratica, Intesa Sanpaolo annette, oltre a sportelli e personale (in attesa di, passata la festa, gabbare lo santo) tutti i crediti solvibili, mentre la collettività si accolla i crediti ad alto rischio e quelli inesigibili.
Il tutto finanziato con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento tra i brindisi delle feste dello scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio delle banche da mettere a carico del debito pubblico. Garanzie peraltro già insufficienti, visto che, se a quest’ultima operazione, aggiungiamo quelle relative a Mps da una parte e alla «banda delle quattro» (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) dall’altra, siamo già ben sopra i 30 miliardi.
Eppure «il nostro sistema bancario è solido, privo di rischi e i risparmi della famiglia sono in sicurezza» twittava il 31 ottobre 2014 il ministro Padoan. «C’è una manovra su alcune banche, punto», ma il sistema «è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono», rassicurava Renzi in un intervista del 13 dicembre 2015, dopo le prime crepe. «Affronteremo i problemi legati a casi specifici del nostro sistema bancario, che è solido, e sta contribuendo alla ripresa finanziando l’economia», si arrampicava sugli specchi Gentiloni non più tardi di 6 mesi fa.
Così evidentemente non era, ma le banche, allevate da decenni col principio del too big to fail (troppo grosse per fallire) o, come nel caso in oggetto, del too interconnected to fail (troppo interconnesse per fallire) sanno di poter superare ogni limite di rischio e ogni disinvoltura, con la certezza che alla fine il pubblico interverrà. Lo Stato al servizio delle banche è infatti l’unica certezza che consente ai sacerdoti del fondamentalismo di mercato di poter proseguire i loro sermoni sui media mainstream. Strano il mondo ai tempi del capitalismo finanziarizzato: il debito pubblico, propagandato da governi e tecnocrati come colpa collettiva da espiare e usato come clava per espropriare diritti del lavoro, beni comuni e servizi pubblici, diviene subito una rosa gentile in soccorso di due banche condotte al fallimento da anni di scelte manageriali fondate su clientelismi e corruzioni e da controlli compiacenti. Demistificare la narrazione ideologica sul debito e rivendicare una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, è forse ciò che manca nell’analisi di chi anche in questo periodo propone giustamente di mettersi in marcia, dal basso e in forma inclusiva, per costruire un’alternativa nel Paese.