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Stefano De Caro
"Scavomania" o tutela necessaria?
9 Novembre 2008
Beni culturali
L'appassionata risposta alle accuse di Carandini da parte di chi sta sulle barricate della tutela. Da Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2008 (m.p.g.)

Non ho ancora letto il nuovo saggio di Andrea Carandini su come "Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000", ma mi sembra necessario commentare subito l'intervista all'autore di Paolo Conti apparsa pochi giorni fa sul Corriere della Sera. I riferimenti ironici agli archeologi delle Soprintendenze, "talebani" educati nelle "madrase della tutela", dediti ad un'ottusa forma di opposizione allo sviluppo del territorio con insensate richieste di scavi preventivi sono francamente fuorvianti. L'ironia è sempre simpatica, ed è per sua natura esagerata, ma non dovrebbe giungere al travisamento e a rischiare di minare la credibilità di una categoria di funzionari la cui azione in difesa del patrimonio archeologico è universalmente apprezzata.

E forse è anche vero che questi archeologi-talebani praticano la tutela con una passione quasi anacronistica in tempi di opportunismo travestito da realismo. Figuriamoci: la maggior parte di loro crede sul serio, quasi fosse una sura del Corano, che debba essere preso alla lettera l'articolo 9 della Costituzione che pone la tutela del patrimonio archeologico al di sopra di tutti gli altri valori, ivi compresi quelli economici!

Peccato però - afferma Carandini - che questi funzionari non assolvano bene a questo dovere in quanto i loro scavi di emergenza, non pubblicati, si risolvono in una perdita di dati, e quindi addirittura in una colpevole distruzione di strati archeologici.

Ma è proprio vero? In realtà è ben noto che non poche scoperte importanti sono avvenute proprio negli scavi di emergenza che rappresentano ormai quasi il 90 % dell’attività delle Soprintendenze, giacché quelli “di ricerca” hanno, ormai da tanto tempo, sempre meno risorse a disposizione. Senza dire che gran parte degli oggetti che riempiono i nostri musei sono frutto di questa stessa archeologia, preventiva o di emergenza, che consiste in quel poco fascinoso lavoro fatto di vincoli, di dispute sugli strumenti urbanistici, sui condoni edilizi, di procedimenti civili e penali. Va bene, ma perché molti degli scavi di emergenza – come giustamente afferma Carandini - restano inediti? La risposta più vera è: il ritardo o la mancanza di pubblicazioni dipende dall’esiguo numero degli archeologi delle Soprintendenze; dallo stato di precarietà dei loro collaboratori esterni; dall’insufficiente attenzione da sempre dedicata a questo problema da un Ministero strutturato su un modello burocratico-amministrativo piuttosto che tecnico-scientifico. Ma anche dal fatto che, perfino nel caso di un’opera pubblica, ricerca e scavo archeologici sono stati percepiti non come l’espressione di un valore preminente, ma come un impaccio di cui sbarazzarsi al più presto. Per cui si sostengono le spese per la loro esecuzione – anche chiamando costosi consulenti accademici a contrastare le richieste delle Soprintendenze e cercar di risparmiare -, ma una volta che l’area è, come si suol dire, “bonificata” dai resti archeologici, non c’è chi paga per la pubblicazione; tanto meno le Soprintendenze coi loro magri bilanci. E allora? “Non fate questi scavi, accontentavi delle prospezioni” sembra essere la risposta di Carandini. Mentre quella imposta dalla deontologia professionale (e dalla legge) può essere solo quella “talebana”: e allora non si può fare l’opera pubblica perché procedere alla cieca, solo vagamente intuendo da una prospezione che sotto terra c’è un monumento non servirebbe affatto ad impedirne la distruzione (e anche spendendo di più per le inevitabili sospensioni dei lavori). Per paradossale che sembri: meglio un’opera in meno che uno scavo non pubblicato.

Nessuna Soprintendenza opera per “avidità di scavo”, ma perché non se ne può fare a meno, per salvare il territorio almeno come memoria storica. Lo scopo del nostro lavoro è indagare e rendere pubblica la storia del territorio. Pubblicare uno scavo non è un inutile sfoggio di cultura, è la conclusione obbligatoria di un’attività scientifica e istituzionale che fin dal primo momento dovrebbe essere messa nel conto della programmazione delle opere, grandi e piccole, pubbliche o private.

In questi giorni il Ministero sta perfezionando il regolamento della legge sull’archeologia preventiva che prevede che si mettano in conto fin dall’inizio, almeno per le opere pubbliche, i costi della pubblicazione. Chi scrive sta istituendo, in collaborazione con l’Associazione Internazionale di Archeologia Classica, una rivista elettronica per la rapida ed economica edizione online degli scavi. Si possono studiare nuovi modelli di intervento, chiamando, ad esempio, le Università a concentrarsi sui problemi della tutela, rinunciando in parte a ricerche più gratificanti per prospettive mediatiche. La discussione su questi temi è più che mai aperta.

Tutto meno che lasciar passare l’idea che la ricerca archeologica preventiva sia un falso problema.

L'autore è Direttore Generale per i Beni Archeologici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

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