Se dici, o peggio ancora scrivi, parole che urtano i miei pregiudizi o i miei interessi, io ti ammazzo. O ti faccio ammazzare dai miei sicari. È l´arcaica, insopportabile sentenza di morte della parola, e dell´uomo libero che la pronuncia, con la quale le società democratiche si erano illuse di avere chiuso il conto. Finché la fatwa contro Rushdie, l´assassinio di Theo Van Ghog e numerose altre azioni del fanatismo islamista hanno riportato nel cuore dell´Europa la questione.
Tra i molti evidenti svantaggi, almeno un vantaggio: rendere più acuta, in noi, una percezione della libertà di espressione quasi opacizzata dal suo uso e fors´anche dal suo scialo. Al punto che oggi – ed era finalmente l´ora – riusciamo a leggere per quello che sono, e cioè attentati alla democrazia, offese letali alla libertà di tutti, anche episodi fin qui pigramente ascritti alla cronaca nera, come le minacce di camorra al giovane scrittore napoletano Roberto Saviano.
Mentre i giornali di tutto il mondo stanno dando enorme rilievo all´assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaja, comincia finalmente a prendere corpo anche in Italia, sia pure timidamente e in ordine sparso, la coscienza di un gigantesco e annoso problema di libertà tutto nostro, tutto locale. Le minacce a Saviano, colpevole di avere raccontato Napoli per quella che purtroppo è, e per giunta di averlo fatto in un bel libro, rinverdiscono la tradizione infame di intimidazione, ricatto e assassinio che colpisce chiunque, nel nostro meridione, si ribelli alla dittatura delle mafie. Dalla scomparsa del giornalista De Mauro all´esecuzione del militante politico Impastato, del giornalista Fava, del giornalista Siani, non c´è voce davvero libera che possa esprimersi, nel nostro Mezzogiorno, in legittima libertà e sicurezza. Da più di mezzo secolo, cioè da quando l´Italia è formalmente una democrazia e una Repubblica, pezzi decisivi della Costituzione non sono applicabili in larghe zone del Paese nelle quali la libertà economiche sono sottoposte allo strozzo, al parassitismo e alla violenza delle famiglie mafiose. E la libertà di cronaca e di opinione conta le sue vittime tra i morti come tra i vivi, cioè tra gli zittiti a morte e gli spaventati a vita.
È davvero grave, ripensandoci, che questo particolare aspetto della presenza mafiosa – quello liberticida, che disvela nella mafia la tirannia prima ancora del malaffare – sia stato così scarsamente avvertito, fin qui, dalla classe dirigente così come dall´opinione pubblica. L´allarme di Umberto Eco e di Alberto Scurati, che sulla Stampa giustamente ridefinisce le mafie come antitetiche non solo e non tanto alla legalità, ma addirittura alla libertà, forse è un primo passo per aiutare politici, intellettuali e cittadini a salire di almeno un gradino, quando si parla di mafia, la scala dell´intollerabilità. Parole come oppressione mafiosa, dittatura mafiosa, occupazione mafiosa, rendono molto evidente la necessità non retorica, ma sostanziale, di una vera e propria lotta di liberazione politica, territoriale e culturale. Lo sanno i ragazzi di Locri, lo sa chiunque abbia percepito nella vita quotidiana, nelle strade, nelle case, il plumbeo conformismo dell´assuefazione, che è l´ossigeno che tiene in vita ogni sistema oppressivo.
Oltretutto non guasta, nel mezzo di quel complicatissimo groviglio mondiale che viene convenzionalmente definito "conflitto di civiltà", capire meglio che lo scontro tra arcaismo e modernità (in così larga parte coincidente con quello tra oppressione e libertà) non è certo riducibile alla lotta tra Islam radicale e società secolarizzate (anche islamiche). È presente ovunque logiche di clan, o di tribù, o di cosca, o di conventicola clericale, o di familismo inglobante, tendano a sottomettere i diritti individuali e le libertà formali degli uomini e delle donne, in odio alla libertà dei singoli, alla varietà delle opinioni e delle scelte. Perché i sistemi chiusi, le mentalità arcaiche, sanno benissimo che nessun colpo, per i loro sistemi, è più mortale dell´autodeterminazione delle persone, del loro disporre appieno delle proprie vite e delle proprie parole.
Dire "conflitto di civiltà", dunque, descrive perfettamente luoghi e città di questo nostro Paese nel quale la pubblicazione di un libro costa minacce di morte al suo autore, e giudici, poliziotti, imprenditori, giornalisti e cittadini sono caduti a centinaia perché non volevano vivere sotto la dittatura della malavita, dei suoi sgherri armati, delle sue squadracce punitive.
Per quel poco che vale dirlo, siamo molto vicini a Roberto Saviano, al valore del suo lavoro, all´energia liberatrice delle sue parole. Ci si può anche porre il problema se parlare ad alta voce del suo caso lo aiuti a sentirsi protetto o lo esponga maggiormente. Ma non c´è dubbio che non parlarne esporrebbe tutta Napoli, e tutti gli italiani, al rischio insopportabile dell´indifferenza.