Per l'ultimo film girato qui, The Passion di Mel Gibson, i Sassi sono stati trasformati in Gerusalemme e la scenografia di cartapesta, così precisa e così verosimile, ha conquistato a tal punto un paio di consiglieri comunali da spingerli a proporre, in Aula, di lasciare «per sempre, così com'è nel film» la Porta di Gerusalemme riprodotta da Gibson. Risate. Facce incredule. Occhi bassi. E rapido passaggio ad altro argomento all'ordine del giorno.
Non solo per non finire sepolti dalla fin troppo evidente ragione che i Sassi non possono e non devono diventare una sorta di Disneyland, ma anche e soprattutto perché parlare oggi dei Sassi come meriterebbe, a Matera, in Basilicata, in Italia, significa accendere una miccia dentro a una polveriera. Perché questo insediamento neolitico unico al mondo, paragonabile solo alla città di Petra, in Giordania, e appena nel 1993 dichiarato dall'Unesco «Patrimonio mondiale dell'umanità», sta subendo — assieme al resto della città moderna — un vero e proprio saccheggio edilizio e urbanistico.
Dovevano essere, questi anni, l'inizio di un'era nuova. Di riscatto e di rinascita. Il riscatto, dopo decenni di oblio e di vita grama e malsana, i «cristiani» insieme con gli animali nelle stesse grotte di tufo e la famosa denuncia di Palmiro Togliatti, «i Sassi sono la vergogna d'Italia». E la rinascita, con la speranza concreta accesa nel 1977 dal concorso internazionale per il recupero dei Sassi. Vince uno studio elaborato da architetti che per una volta non vengono da lontano, che hanno i Sassi nella testa perché si sono formati alla scuola dei Benevolo e dei Quaroni, ma li hanno anche nel sangue, perché sono nati qui, i loro sono nomi familiari, si chiamano Tommaso Giura Longo, Renato La Macchia, Letizia Martinez, Lorenzo Rota, Luigi Acito.
Forse ci siamo, pensano a questo punto anche i più scettici, forse è davvero arrivato il momento in cui nei Sassi, dopo la necessaria evacuazione di massa, tornerà la vita, con le persone a chiacchierare al fresco le sere d'estate, le botteghe, i bambini a giocare per strada. C'è anche una legge, perbacco, la numero 771, e ci sono i finanziamenti. Recupero conservativo, si chiama, e non ci sarà spazio per il trucco o per l'inganno. Basterà intervenire con saggezza, prudenza, garbo, intelligenza, lungimiranza, amore. Invece no, non è andata così. È andata, sta andando, come temevano e avevano detto gli scrittori Carlo Levi e Giorgio Bassani, il primo confinato in Basilicata dal regime fascista e «lucano» di fatto, il secondo presidente di Italia Nostra. «Temo che con il recupero i Sassi diventeranno preda di volpi e di serpenti» aveva detto Levi. E Bassani, in un intervento a Matera nel 1967: «Sono estremamente pessimista circa la sorte dei Sassi, come per Venezia». Aggiungeva, Bassani, che le amministrazioni comunali, specialmente se progressiste, hanno un dovere in più, «devono preservare le città e i centri storici dall'invasione di quella specie di Internazionale del vetro, dell'acciaio e del cemento armato, che sta coprendo di noia e di conformismo tutte le terre, tutti i Paesi e che
pensa soprattutto ai propri affari». Le parole di Bassani hanno quarant'anni, ma sembrano una fotografia di Matera e dei Sassi scattata oggi. C'è tutto, anche quella «amministrazione progressista» che governa da dodici anni con maggioranze bulgare del 72 per cento (tutti i «democristiani» dell'era Colombo diventati «comunisti») e che invece di vigilare di più e recuperare con rigore e saggezza ha aperto i recinti alle ruspe e ai palazzinari (pardon, immobiliaristi), che avvalendosi della zelante solerzia dell'Ufficio tecnico, dell'Ufficio Sassi e della Soprintendenza stanno cambiando i connotati alla città nuova e ai rioni antichi.
Lo documenta, con un bel numero monografico, la rivista Basilicata, fondata cinquant'anni fa sull'onda di quella grande esperienza culturale e di intervento pubblico urbanistico lanciata da Adriano Olivetti in Lucania con il nome di «Comunità». Il direttore di Basilicata, Leonardo Sacco, intelligenza critica rara e grande amico di Levi e Olivetti, sostiene che ormai anche Matera riassume «la cattiva urbanistica nazionale» e che il recupero dei Sassi è «maldestro, manipolato, fuori e contro piani e progetti». Mentre l'architetto Tommaso Giura Longo, il «capitano» della squadra che vinse il concorso internazionale del '77, denuncia la corsa ai finanziamenti statali a fondo perduto, senza cioè obbligo di restituzione, per la «ristrutturazione» di immobili e per l'avvio di nuove attività produttive nei Sassi. In teoria, un'opportunità di risanamento e sviluppo, se per esempio tenesse conto del Manuale del restauro approntato da un altro architetto materano, Amerigo Restucci, docente all'Università di Venezia. In pratica, una fabbrica di carte che renda possibile l'impossibile.
Due esempi chiariranno meglio. Nel Sasso Caveoso c'è un bel palazzo seicentesco. E c'è il figlio del presidente del tribunale di Matera, che lo vuole ristrutturare. In che modo? Taglia le volte interne, costruisce una canna fumaria non prevista, eleva una torre in cemento armato che fuoriesce di quattro metri dal tetto per metterci l'ascensore. Il cantiere viene bloccato, perché anche negli uffici tecnici comunali qualche geometra che fa bene il proprio lavoro c'è ancora. Ma l'ultima parola spetta al capo, in questo caso il dirigente dell'Ufficio Sassi, Francesco Gravina. Il figlio del giudice chiede una «sanatoria» e Gravina non si fa pregare. Del resto, anche il direttore della Soprintendenza per i Beni architettonici e il paesaggio, Attilio Maurano, ha dato il suo bel parere favorevole. I lavori riprendono. In che modo? Non secondo la già discutibile «sanatoria» ottenuta (e oggetto di ricorso al Tar), ma secondo nuove modifiche in corso d'opera, che nel progetto originario non c'erano e che, dice Raffaele Giura Longo, deputato del Pci per tre legislature, «sono un pesante attentato all'integrità futura dei Sassi, commesso da una lobby affaristica che non è trasversale, ma tutta intera espressione del centrosinistra».
Un altro caso clamoroso è quello del giardino del convento di Sant'Agostino, nel Sasso Barisano, meglio noto come «il parcheggio della Soprintendenza». Duecento posti macchina su tre piani interrati al posto del giardino e dei cipressi secolari, abbattuti. Lavori cominciati qualche mese fa e posti macchina che via via diminuivano e alla fine sono diventati 40 perché, com'era stato detto e ripetuto al sordo soprintendente, scavare lì avrebbe significato trovare tante di quelle testimonianze archeologiche da dover abbandonare l'idea. Come poi è avvenuto. Solo che ormai il giardino del convento è nulla più che una grande fossa a cielo aperto.
Nei Sassi tuttavia è stato fatto anche qualcosa di buono e un po' di gente è tornata a viverci. Non più di duemila persone però, contro le quattromila previste dall'opera di risanamento. E sono sempre di più quelli che pensano di andarsene di nuovo. Troppi pub, ristoranti, discoteche, taverne, pizzerie e addirittura 800 posti letto nei bed and breakfast. Troppo rumore, troppe auto nei vicoli tortuosi da percorrere invece a piedi. E troppo effetto zoo, tutto il contrario di quella vita «normale» che chi aveva abbandonato i Sassi sperava di trovare quando vi ha fatto ritorno. Leonardo Sacco ricorda ciò che disse Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e sindaco di Roma, all'assemblea nazionale dei Centri storico-artistici, nel 1990: «È ancora possibile pensare alla tutela dei suoli urbani e dei centri storici, se chi persegue questo obiettivo trova il più delle volte contrari il governo, la legge, la magistratura?». E i Sassi, è ancora possibile salvarli?
I Sassi di Matera in uno scatto del 1951 del celebre fotografo francese Henri Cartier-Bresson, scomparso nel 2004 (foto Magnum) Nelle altre immagini Palmiro Togliatti, Carlo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sacco