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Sandro Medici
Saluti romani all'urbanistica
12 Aprile 2010
Roma
Amaro commento alla kermesse romana voluta da Alemanno a decretare la morte dell’urbanistica capitolina. Da il manifesto, 11 aprile 2010 (m.p.g.)

C'era una volta l'urbanistica. Quella scienza inesatta perché politica che disegnava le città sulla base delle esigenze economiche e sociali di chi le abitava, cercando di armonizzare il progetto architettonico con il contesto ambientale. Quel faticosissimo esercizio prima intellettuale e poi materiale attraverso cui i governi territoriali dialogando o confliggendo con i cittadini hanno trasformato le città, a volte con successo più spesso malamente, assumendosene tuttavia la responsabilità culturale e politica nel confronto con i propri cittadini.

La nobile funzione pubblica di regolare lo sviluppo urbano piegandolo all'urgenza dei bisogni collettivi sembra definitivamente estinta. Forse era inevitabile, troppo generosa negli intenti, ingenua come sono ingenui i buoni sentimenti che rifuggono dall'acidità di un reale contraddittorio e indomabile; ma anche debilitata dal suo eccesso di illuminismo, di quella volontà di ordinare ciò che di per sé è disordinato: un po' come mettere le mutande al mondo.

Sia come sia, pietà l'è morta.

I funerali si sono celebrati a Roma, giovedì e venerdì scorso, guarda caso tra le navate di un tempio dell'architettura contemporanea, l'Auditorium di Renzo Piano. E' stata una cerimonia fastosa, in cui il verbo architettonico ha raggiunto il popolo dei muratori, e una manciata di chierichetti-amministratori a scodinzolare e gongolare. Si doveva ragionare intorno al futuro della capitale, che è la città più grande e complessa e maltrattata d'Italia, e ciascuno ha tratteggiato il proprio. Bello, brutto, così così, non importa. Si trattava solo di sventolare suggestioni e proiettare visioni.

E' stata una narrazione molto coinvolgente, contrappuntata da torri da erigere e muretti da abbattere, sviluppi abitativi verticali e sistemi fognari orizzontali, nuvole sognanti e lampioni lampanti, abbattimenti ricostruzioni riconversioni, piazze piazzette fontanelle, alziamo qua, prendiamo lì, l'austerità ottocentesca, la marmellata novecentesca, la periferia chissenefrega. Ecco il futuro di Roma. Pezzi e pezzetti, strapuntini sparsi, un po' di monumentalità architettonica. Uno slancio creativo decontestualizzato e indifferenziato, stagliato su una modestissima panoramica dell'esistente che oltretutto fa anche un po' schifo.

Qualcuno in città aveva sospettato che la conferenza urbanistica (urbanistica?) di Alemanno sarebbe stata una vetrina infiocchettata, uno specchio delle vanità politiche della destra che si sente ormai padrona. L'avevano pure dichiarato comitati, movimenti, associazioni, sindacati, Municipi ed esclusi vari, qua e là, senza tuttavia ricevere riscontri significativi: c'era il timore di apparire ostili alla contemporaneità più o meno progressista, di prendersela con Calatrava, Fuksas, Piano, Meier e tutti gli altri (ma siamo matti?). Be' è stata perfino peggio. Ma non per ciò che si è proposto, che si è ipotizzato, per le nuove idee che pure sono affiorate. Ma per la semplice ragione che è andata perduta un'occasione di progettare organicamente la città, di comporre un minimo di quadro urbanistico che delinei ciò che bisogna fare di Roma. Insomma, una conferenza urbanistica senza urbanistica.

Che il sindaco Alemanno non abbia minimamente idea di come andare avanti, di come gestire la città e di come prefigurarla, è cosa nota a tutti, perfino a lui. Ed è per questo che l'incontro fieristico che si è svolto all'Auditorium l'aiuta in questa sua strutturale inconcludenza. Nessun intento pianificatorio, un po' di progetti disaggregati ed episodici e l'imminente trasferimento dei beni demaniali di cui far mercimonio. Quanto al piano regolatore approvato due anni fa, basta continuare a far finta di niente, magari implementarlo di cubature se il mercato lo ritiene necessario, accoglierne qualcosa di conveniente, e per il resto è carta straccia.

Ormai nessuno più a Roma si arrocca intorno a quel piano, che sappiamo non essere indenne da numerose e pesanti incongruenze, esito di un compromesso politico tra urbanistica negoziata e urbanistica partecipata. Ma è tuttavia un tentativo di coordinare lo sviluppo futuro della città sulla base di un ragionamento e di un senso: condivisibile o meno, si configura come una pianificazione organica. Prevede che la città cresca intorno a uno schema policentrico, conferma la vincolistica sul sistema dei parchi e sull'Agro romano, prefigura un consistente intervento risanatore sui tessuti urbani intermedi, e così via.

Ma è proprio questa «pretesa» di determinare il dove e il cosa che la destra romana (la destra tutta) vuole definitivamente superare e liquidare. Intanto, facendo capire che Roma è nata e cresciuta così, con un esteso centro storico congestionato da funzioni urbanistiche pesanti, e così deve restare; con la conseguenza che tutto il resto fino all'estrema periferia continuerà a essere un gigantesco contenitore di case d'abitazione sovraccaricato di traffico e sottodimensionato di servizi. L'idea insomma di alleggerire la città storica, e finalmente riconsegnarla al suo ruolo di bene culturale «naturale», per trasferire più in là le grandi attività e i poli funzionali, e così dare slancio urbanistico alle periferie, viene di colpo affondata. Eppure, senza voler ricorrere ad argomentazioni disciplinari, chiunque, anche in Campidoglio, sarebbe in grado di elaborare questa semplice equazione a saldo zero.

E' che la cultura del sindaco e dei suoi è un po' limitata. Preferiscono che tutto resti com'è, perché intervenire è difficile e perché in fondo è meglio non scombinare troppo, vivacchiando alla giornata e passando la nottata. Per il resto, godiamoci quanto altri hanno realizzato, completiamo quel ch'è già in corso, magari ritocchiamo e così facciamo finta di avere qualche idea, e poi domani è un altro giorno.

Si pensava che il peggio fosse l'urbanistica contrattata con il mercato. Ma nessuno pensava che saremmo arrivati all'urbanistica del chissà chi lo sa.

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