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Maria Serena Palieri
S.O.S. Beni culturali
10 Giugno 2006
Il paesaggio e noi
Un forum da l’Unità del 7 febbraio 2004. Il nuovo Codice voluto dal ministro Urbani spalanca le porte al saccheggio del nostro patrimonio artistico e paesaggistico. Che fare? Rispondono Fisichella, Melandri, Emiliani e Chiarante, forum a cura di Maria Serena Palieri.

Per discutere dei rischi che il nostro patrimonio sta correndo ma, soprattutto, di quel che si può fare per la loro tutela, abbiamo invitato in redazione a parlarne con noi il vicepresidente del Senato Domenico Fisichella, l’ex ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri, il presidente del Comitato per la Bellezza Vittorio Emiliani e Giuseppe Chiarante, fondatore dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli. Il varo del nuovo Codice per i beni culturali e paesaggistici viene vantato dal ministro Giuliano Urbani come una conquista per «il tesoro degli italiani», come recita il titolo di un suo libro. Le associazioni che si battono per la tutela del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio, invece, dicono che il Codice spalanca l’ultima porta al saccheggio. Il cittadino comune è lecito che si chieda, allora: due anni e otto mesi di governo di centrodestra cosa hanno prodotto in questo campo? Oggi il nostro patrimonio comune è più tutelato o meno?

GIOVANNA MELANDRI. Io do un giudizio fortemente critico sul Codice. Il problema, però, è che questo Codice arriva a valle di una complessiva iniziativa legislativa del governo Berlusconi. C’è un piccone che sta demolendo quei principi su cui per due secoli si è fondata la cultura della tutela nel nostro Paese: dall’istituzione di Patrimonio Spa ai meccanismi di cartolarizzazione del patrimonio dello Stato, Legge 112 del 2002, il famoso art. 33 della Finanziaria 2002, quello che, nella sua prima versione, privatizzava di fatto la gestione dei musei; ci metterei anche la legge obiettivo Lunardi; poi c’è la Finanziaria 2002, quella che ha tagliato risorse più di altre, perché la tutela si fa anche destinando risorse pubbliche al restauro e alla conservazione; c’è la norma del silenzio-assenso per la vendita del patrimonio culturale prevista nella Finanziaria e ora assunta nel Codice; c’è il condono edilizio; c’è il provvedimento sulla depenalizzazione delle costruzioni abusive in aree protette. Il Codice Urbani non sbuca dal cilindro.

GIUSEPPE CHIARANTE. Mi sono riletto proprio ieri il bel volume che il Servizio Archivi del Senato ha pubblicato sulla legge del 1909, la prima legge dello Stato italiano, in questo campo, di una certa organicità. Il primo articolo pone il principio fondamentale per la tutela, cioè dice: «I beni storici, artistici, archeologici, etc. sono assolutamente inalienabili». E da lì seguono le altre norme. La preoccupazione di fronte al nuovo Codice e, più in generale, anche per le altre leggi che ne hanno preparato la stesura è che, invece, si registra uno spostamento del rapporto Stato mercato. Dal 1909 alla Legge Bottai al Testo Unico, dopo la definizione di che cosa è «bene culturale» venivano le norme sulla conservazione, sulla prevenzione, sul restauro, sulle varie forme di manutenzione e, solo poi, sull’eventuale alienazione: nel Testo Unico all’art. 55. Qui, invece, e ogni volta che leggo il testo del nuovo Codice resto stupefatto, subito dopo le definizioni di che cosa è «bene culturale» troviamo la norma che spiega come si deve fare per alienarli. Per di più aggravata dall’introduzione nel Codice del principio del silenzio-assenso. Questo è uno spostamento di ottica tra il valore culturale e scientifico della politica di tutela e, invece, l’intervento mercantile.

DOMENICO FISICHELLA. In questo periodo più recente, effettivamente ma, debbo dire, non tutto è cominciato in questa legislatura , si è avviato un processo che ha teso a modificare il ruolo dello Stato nei confronti della tutela ipotizzando crescenti forme di intervento di una logica privatistica e di mercato, in un quadro nel quale il ruolo dello Stato deve essere, viceversa, eminente e preminente. Ho ricordato più di una volta che il mercato è il luogo nel quale si immettono beni caratterizzati da serialità e, quindi, sotto questo profilo, da fungibilità: possiamo produrre due milioni di automobili uguali tra loro, e come tali fungibili, dieci milioni di frigoriferi e lavatrici e così via. E un pezzo può essere sostituito dall’altro pezzo, perché appartengono ad una serie e le uniche differenze riguardano taluni optional. Ed è in ragione di questo che il bene è liberamente vendibile. Il bene culturale, invece, è caratterizzato dalla sua unicità e la cultura di un Paese è il prodotto della rete che si intreccia fra questa straordinaria pluralità di beni singoli infungibili.

Ciò che va messo in evidenza, però, è che questa contrazione crescente del ruolo dello Stato si è avviata già, per un verso, con i processi di regionalizzazione del nostro assetto istituzionale e oggi rischia di accentuarsi fortemente, sia in seguito alle modifiche costituzionali attuate nella precedente legislatura dal centrosinistra e sia, ancor più, con le modifiche costituzionali in via di discussione parlamentare su iniziativa del centrodestra. C’è, quindi, un lavoro complessivo che viene condotto ai fianchi dello Stato: per un verso, la riduzione del ruolo dello Stato a vantaggio di altre istituzioni di tipo locale rispetto alle quali l’influenza degli interessi particolari può farsi più forte, e, per l’altro verso, l’imporsi di questa visione mercantile. Ed è su questo terreno che il silenzio-assenso rischia di diventare dirompente, perché in assenza di strutture adeguate, di personale quantitativamente e qualitativamente all’altezza, rischia di diventare una pratica attraverso la quale può passare una molteplicità crescente di provvedimenti che finiranno per ridurre il quadro dei beni davvero sottoposti a tutela a poca cosa. Non c’è solo il problema del Colosseo, c’è il problema di un Paese che, avendo più di ottomila Comuni, ha un tessuto fitto, che costituisce la sua specificità.

VITTORIO EMILIANI. Ho sotto gli occhi una circolare del 1857 del granduca Leopoldo di Toscana che, per altro, richiama leggi del 1754 e potrebbe richiamare anche il testamento dell’ultima de’ Medici che dispone la inalienabilità «degli stabilimenti delle comunità e dei luoghi pii, delle Chiese, delle Corporazioni religiose, dei Conservatori, delle opere delle Compagnie, Confraternite e Spedali»; parallelamente faceva lo Stato Pontificio: prima con Benedetto XIV, poi con Pio VII; e poi, via via, le leggi citate, fino alla legge del 1909 Rosa di Rava, il cui regolamento Bottai assume per la sua, del ’39. Dall’altra parte la legge sulle bellezze naturali firmata da Benedetto Croce nel 1922, in parallelo con l’istituzione dei primi due Parchi Nazionali, quello d’Abruzzo e quello del Gran Paradiso, pure ripresa da Bottai nella 1497, giovandosi anche del contributo di due giovani che si chiamavano Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan. Avanti ancora: la legge urbanistica del ’41, le leggi sulla casa, e la legge Galasso, alla fine, che aveva dato una normazione del paesaggio molto più stringente. Qui siamo ad un continuo decalage rispetto a questa normativa che ci aveva, certo, messo in una situazione di avanguardia. In una conferenza stampa abbiamo adottato lo slogan «Ridateci Bottai», a voler dire: ridateci una legislazione inadeguata, sì, rispetto all’oggi, tuttavia assai più tutelatrice di quella attuale. Che, tra l’altro, introduce e sancisce in maniera ufficiale la scissione fra tutela e valorizzazione. E questo è gravissimo.



Ma, se la tutela è nel Dna del nostro Paese, come è possibile che oggi una cultura, oltre che sbagliata, anche minoritaria, come quella espressa dal ministro Urbani, abbia la meglio?

EMILIANI. Ha ragione il presidente Fisichella quando dice che già precedentemente si erano aperti dei varchi. La Melandri era ministro quando, sciaguratamente, la Camera approvò nella finanziaria 2000 un emendamento della Lega Nord che già ribaltava il criterio: i beni culturali e demaniali non sono più tutti inalienabili salvo eccezioni, ma sono tutti alienabili salvo eccezioni. Si dovette provvedere con un regolamento ad hoc che corresse ampiamente: è il regolamento 283 del settembre 2000, oggi abrogato con il nuovo Codice. Anche sul voto dei sovrintendenti nelle conferenze di servizi per le grandi opere, c’era già stato un tentativo, in parte riuscito, di equiparare il loro voto e di non dargli più la possibilità di veto. Il veto, per esempio, opposto da Adriano La Regina al sottopasso di Castel Sant’Angelo...

MELANDRI. Intanto vorrei continuare a rispondere alla domanda iniziale: il complesso di norme che è stato approvato dall’attuale governo costituisce una rottura della cultura giuridica del nostro Paese? La mia risposta è sì. La nostra Costituzione all’art. 9 cristallizza l’idea della tutela e la sovradetermina su tutte le altre esigenze, anche quelle della valorizzazione. Questo principio ha ispirato decenni di legislazione. Questo, naturalmente, non toglie che nel corso della legislatura di governo dell’Ulivo, ci siano state incursioni. Incursioni però firmate quasi tutte da forze dell’opposizione dell’epoca su cui, poi, convergevano settori della maggioranza. Incursioni però tutte rimandate al mittente. Rimediate e riparate, tranne una: il Titolo Quinto. Oggi, però, siamo di fronte ad una rottura di cultura giuridica. Viene da citare Keynes: «Voi spegnereste il sole e le stelle, perché non danno dividendi». Non voglio polemizzare a distanza con il ministro Urbani, però il problema è che, se puntiamo la luce sulle sue iniziative, l’ombra che si proietta sul muro è sempre quella di Giulio Tremonti: la politica culturale, ambientale, paesaggistica di questo governo non la fa Urbani. Poi lui tampona e perde regolarmente.

In base all’articolo 9 della Costituzione e alla sovradeterminazione della tutela, fino al Codice, tutti i beni culturali di natura pubblica erano inalienabili, tranne eccezioni, quelle definite dal famoso regolamento 283 del 2000 che definimmo insieme alle associazioni di tutela e agli enti locali. Perché in alcuni casi eccezionali, definiti volta per volta dalle sovrintendenze, è possibile che il trasferimento del titolo di proprietà sia una forma attiva di tutela. Ora, invece, che cosa succede? Esattamente l’opposto: i beni sono tutti alienabili. Primo punto di rottura su cui si innesta il meccanismo pesantissimo del silenzio assenso.

Secondo punto: il ministro Urbani, nel presentare il Codice, ha valorizzato l’aspetto, a mio giudizio, solo formale della tutela del bene paesaggistico. Se si va però a leggere bene, si scopre che, in realtà, il Codice azzera la politica di tutela del paesaggio. Perché? Prima lo Stato poteva impedire l’edificazione di costruzioni, anche laddove fossero state autorizzate dagli Enti locali (che sono, come è noto, titolari del potere di concessione edilizia), quando la sovrintendenza ritenesse che minacciavano l’integrità delle zone sottoposte a vincolo paesaggistico. Questo meccanismo, che veniva dalla legge Galasso, ha dei limiti.

Qual è l’inconveniente? È che le sovrintendenze arrivano a valle del processo di pianificazione. Motivo per cui il ministro Melandri, nel 1998, promosse una Conferenza nazionale sul paesaggio, da cui derivò un atto di indirizzo che venne emanato dal ministero e concertato con tutte le Regioni, anche governate dal centrodestra, in cui si diceva: verificate a monte e non a valle con gli Enti locali ciò che può essere autorizzato, in modo che le sovrintendenze non siano costrette, poi, ad annullare le autorizzazioni concesse. Che cosa fa Urbani? Cancella il potere di annullamento delle sovrintendenze. Prima le sovrintendenze erano le depositarie delle chiavi della tutela, sia per il trasferimento del titolo di proprietà, nel caso del bene culturale, che per la tutela del paesaggio. Ora, con l’introduzione del silenzio assenso, l’indebolimento delle strutture del ministero e la controriforma del Codice, non hanno più né risorse né voce in capitolo.

Voglio aggiungere una cosa: da più parti viene mossa ai governi dell’Ulivo, ed anche a prima, alla legge Ronchey, la critica di avere aperto il vaso di Pandora. Questa è un’accusa che non accetto. La legge Ronchey interveniva con una chiarissima distinzione tra le funzioni di gestione del patrimonio del museo e i «servizi di accoglienza», che, per loro natura possono essere forniti meglio da un privato che dallo Stato. E vorrei ricordare che, viceversa, il governo Berlusconi, nella Finanziaria del 2002, provò a introdurre il famoso art. 33 per cui l’intera gestione museale era affidata ai privati: quello, sì, era uno strappo giuridico. Urbani difese quel provvedimento. Ci fu una sollevazione nel mondo dell’arte che portò il governo a modificare in corsa gli aspetti più perniciosi di quella norma. E ora la ritroviamo in parte nel Codice. C’è, poi, la questione dell’alienazione del patrimonio. Si è già detto: il Regolamento 283 del 2000 che noi emanammo partiva dal principio che i beni erano inalienabili salvo casi specifici e secondo modalità stabilite dal regolamento e, comunque, l’obiettivo era sempre quello della tutela/valorizzazione del bene. Il nostro obiettivo non era fare cassa. Con il vincolo, pena la recessione del contratto di alienabilità, del godimento pubblico: il bene non veniva privatizzato, doveva essere restituito alla comunità. Con la Finanziaria 2004, invece, si introduce la tagliola del silenzio assenso.

C’è poi un punto su cui è stata introdotta un’ambivalenza che oggi rischia di essere travolta dalla devolution di Bossi. È la riforma del Titolo Quinto approvata dall’Ulivo (con il mio dissenso formale nel Consiglio dei Ministri, ma questo non conta) che non ha chiarito a fondo come sarebbe stato doveroso il tema dell’attribuzione delle competenze alle Regioni: tutela e valorizzazione sono le due facce della stessa medaglia, una separazione meccanica dei due aspetti non aiuta. Oggi si sta parlando ecco dove c’è il salto, di nuovo, di cultura giuridica di uno Stato che vende e mercifica, non investe risorse pubbliche e intanto affida totalmente, esclusivamente alle Regioni il compito.

CHIARANTE. Io torno alla seconda domanda, perché credo che serpeggi nell’opinione pubblica. Sono d’accordo con Giovanna Melandri: la politica del governo dell’Ulivo sostanzialmente è continuata nel solco di una cultura giuridica secolare. Invece vedo un’offensiva che parte da lontano, l’offensiva economicistica mercantilista che, in campo di beni culturali, si manifesta la prima volta negli anni ’80 con la parola d’ordine dei «giacimenti culturali». Estremamente pericolosa, perché confonde due cose che devono essere ben distinte: il fatto che il bene culturale certamente può essere un fattore di ricchezza anche economica, come lo è per l’Italia, il nostro patrimonio è uno dei motivi di richiamo per il turismo, ma in un senso radicalmente diverso da quello che si intende a proposito di giacimenti. Dai «giacimenti», siano di petrolio, di carbone, di ferro, si estrae materia da consumare. Bisogna, invece, mantenere fermissimo il concetto che il patrimonio culturale è un tessuto che deve essere garantito proprio nella sua complessità. Non si può dire: «In questo Museo abbiamo tante copie, vendiamole!».

E qui vorrei aggiungere anche la preoccupazione per il disegno di legge sulla riforma del Ministero. Qui si colpisce duramente il personale di carattere scientifico e tecnico: quando, per compensare la creazione di una quarantina di direttori generali, si dice che si tagliano sedici posti di dirigenti di seconda fascia, significa che si tagliano sovrintendenti archeologi, storico-artistici, architetti, archivisti, bibliotecari. E, con poche forze, è chiaro che i pericoli insiti nel silenzio/assenso si moltiplicano. E qui voglio sottolineare una cosa, che non è stata abbastanza notata: nel recepimento nel Codice della norma sul silenzio/assenso c’è stato un grave peggioramento, perché è stato soppresso il comma 9 di quell’articolo del decreto. In pratica il silenzio/assenso entra come norma ordinaria, non più come norma di prima esecuzione, nell’ambito della normativa di tutela.

FISICHELLA. La domanda che ci avete fatto è: «C’è un’opinione pubblica maggioritaria nel Paese che può contrastare queste linee di tendenza?». Forse potrebbe esserci, se nell’opinione pubblica si dibattesse con riferimento alla realtà effettiva. Invece le grandi questioni che investono questo Paese hanno a che vedere troppo spesso con la realtà virtuale. Io credo che, se i cittadini fossero adeguatamente informati di ciò che si sta affrontando, ci potrebbe essere forse la possibilità di opporre una resistenza adeguata. Non ne sono sicurissimo, perché è intervenuto un mutamento di approccio culturale che privilegia oggi la dimensione privatistica, il fare cassa. Noi, tuttavia, parliamo di cose che non hanno una vera corrispondenza con le esigenze reali del Paese: si potrebbe fare l’esempio clamoroso del federalismo, al quale stiamo rivolgendo tanta parte della nostra attenzione, mentre le vere questioni che oggi investono i cittadini riguardano le difficoltà economiche, la flessibilità che ha una sua plausibilità, se si iscrive in un quadro di sviluppo e di dinamismo positivo della società, non se si iscrive in un quadro di ristagno e di declino economico. Detto questo, però, non si può fare a meno di notare che c’è una continuità nel meccanismo logico che in questi anni è stato adottato, nell’affrontare questioni pure apparentemente distanti.

Cosa diceva, prima, l’art.117 della Costituzione quanto al rapporto tra Stato e Regioni? Le competenze sono tutte dello Stato, tranne i casi espressamente e tassativamente elencati in maniera finita. Oggi, nella sua nuova formulazione, si è ribaltato questo impianto: «Le competenze dello Stato sono elencate in maniera finita, per tutte le altre competenze è la Regione il soggetto sovrano». Questo è esattamente lo stesso tipo di ribaltamento che si è verificato, dal punto di vista logico, nell’impostazione sui beni culturali: prima erano tutti inalienabili tranne le eccezioni, quindi lo Stato era il custode di tutto, oggi è esattamente il contrario. Il discorso, allora, si fa difficile e lo è tanto più in un quadro nel quale, oggi, noi siamo in presenza di una classe dirigente governativa che non ama lo Stato, che ha una sua pulsione tendenzialmente antistatale. Non antistatalista, perché le obiezioni allo statalismo le hanno mosse prima di altri gli uomini di cultura di ispirazione liberale, laddove erano statalisti tutti, in questo Paese: era statalista la sinistra, era statalista la Democrazia cristiana, era statalista, socializzatore, corporativista il vecchio Movimento sociale italiano. Questo è ciò che caratterizza questo passaggio delicatissimo della nostra vita pubblica ed in questo io posso convenire su quello che è stato definito il «salto di qualità», c’è un atteggiamento che cambia in maniera drastica nei confronti dello Stato. Si considera la società in posizione primaria rispetto allo Stato.

Ma poi la società in che cosa si concreta se non in quell’insieme di forze economiche e tecnocratiche, e di forze culturali che fanno da supporto alle altre due, che vedono nello Stato una forza di tendenziale prevaricazione? È da qui che noi dobbiamo cercare di uscire. Perché, rispetto allo Stato, c’è stato un atteggiamento che ha lunghe radici: si chiedeva allo Stato una serie di prestazioni che potevano essere date da altri soggetti. Allo Stato abbiamo chiesto tutto, lo Stato ha fatto tutto, ha fatto i panettoni. Ma con il sovraccarico delle funzioni, e il sovraccarico della finanza pubblica, lo Stato ha finito per fare praticamente tutto male! Anche da questa situazione è emerso un atteggiamento di ripulsa sostanziale nei confronti dello Stato. Ma si sarebbero dovute individuare le funzioni che, viceversa, lo Stato non può demandare ad altri e che deve, in prima persona, gestire perché appartengono all’essenza stessa del suo ruolo. E la tutela dei Beni Culturali era uno di questi grandi temi. L’antipolitica, di cui tanto oggi si parla, non è altro che una delle tante facce in cui si esprime l’antistatualità.

La partita è difficile, tutti hanno compiuto e sbagliato delle mosse senza vederne adeguatamente le conseguenze. E, in questo senso, ogni forza politica ed ogni coalizione che si disperde in polemiche interne, infinite, che riguardano persone, simboli, forme organizzative, compie un’opera di distorsione che non aiuta i cittadini a fare chiarezza sulle questioni fondamentali.

EMILIANI. Vorrei dare un dato: negli anni scorsi le sovrintendenze, sia pure a valle, evitavano all’anno circa 3.000 scempi, un 2% circa delle istruttorie, che erano 150 mila. Con mezzi di fortuna: 300 architetti in tutto sparsi per l’Italia. Ed è su queste forze che ora si scarica il silenzio/assenso. Oggi le autorizzazioni delle Regioni e dei comuni prevalgono sul parere dell’organismo tecnico scientifico statale, incaricato di dire di sì o di no. Molte Regioni hanno subdelegato i comuni, quindi i comuni diventano i certificatori di sé stessi, sono controllori e controllati e vi assicuro che, anche in quella che viene chiamata la «Toscana Felix», dove c’è la subdelega per i piani paesistici, stanno succedendo cose da matti! Con il Codice il ruolo del sovrintendente diventa un ruolo «politico», senza poteri reali di intervento. Quanto alla sordità dell’opinione pubblica, bisogna tener conto del livello culturale basso del nostro Paese: il 35% della popolazione oltre i 60 anni ha la V elementare o neanche quella, sono dati impressionanti; c’è un 6% solo di laureati, circa la metà della media europea; un altro 30% ha finito le scuole dell’obbligo e lì si è fermato. Siamo, quindi, a una maggioranza in condizione di semianalfabetismo, con pochissima pratica di musei e con l’idea che il paesaggio può essere sfigurato . Perché, se c’è tanto abusivismo, ci sarà pure un’iniziativa selvaggia dei singoli. Convalidata dal terzo condono in meno di venti anni, che significa la morte del diritto urbanistico.

Il Codice, quindi, va oltre il Titolo V ed i pericoli ed i varchi che già esso apriva. Altra cosa: da chi è stato discusso questo Codice? È stato discusso soltanto dal Ministro con i suoi esperti. Non c’è stata nessuna convocazione del Consiglio Nazionale: è stato rieletto e rinominato 7 mesi fa, ma non è stato mai convocato dal ministro e quello era il luogo dove discutevano i rappresentanti dell’amministrazione, delle autonomie locali e regionali, degli storici dell’arte, degli urbanisti, degli architetti. Nessuna riunione, neanche per un’ora! È passato dal Senato alla Camera, con la discussione di poche ore, soltanto per un parere. E poi ha continuato il suo cammino, sempre con l’idea che poteva essere aggiustato nelle segrete stanze da questo o quell’esperto che garantiva, fino all’ultimo, che il silenzio/assenso non ci sarebbe stato. Ed è rimasto sorpreso il professor Settis, quando ha visto che, invece, alla fine il silenzio/assenso era corpo vivo, sangue e carne di questo Codice.

Ora, per ciò che riguarda il paesaggio, il signor Ministro ha sostenuto che così lui ha completato la legge Galasso. È una colossale bugia, però, sul Corriere della Sera è uscito un suo articolo, non contestato da nessuno, mentre io credo che un giornale debba fare anche il suo mestiere e vedere se uno dice la verità o meno. Io ho scritto una lettera che non è stata pubblicata, in cui cercavo di dire le ragioni: 1) i piani paesaggistici, secondo la Galasso, avevano una scadenza precisa, e qui non c’è nessuna scadenza; 2) c’era un potere di sostituzione del Ministero, ora non c’è più; 3) terza cosa, e Urbani lo sottolinea come un passo avanti, e lo è, la fine delle scandalose autorizzazioni in sanatoria, che in effetti vengono rilasciate, molto spesso, dopo l’esecuzione anche parziale dei lavori. Questo è giustissimo, ma parallelamente lo stesso governo ha varato il condono edilizio.

FISICHELLA. Vorrei chiosare in tre secondi quello che è stato detto circa il ruolo politico, forse sarebbe meglio dire «negoziale», dei sovrintendenti. Il loro sarà un ruolo necessariamente ridotto, perché l’atmosfera nella quale viviamo è questa: il magistrato, ma chi è il magistrato? È solo un signore che ha vinto un concorso, mentre noi siamo i rappresentanti del popolo! Il prefetto? Ma chi è il prefetto? È solo uno che ha vinto un concorso, mentre noi siamo i rappresentanti del popolo! Quando ci sarà la polizia locale, con la devoluzione, inevitabilmente il presidente della Regione finirà per essere il presidente del Comitato per l’ordine e la sicurezza della Regione e cosa potranno opporre i prefetti ad un signore eletto dal popolo? Cosa potranno opporre i funzionari tecnicoscientifici, cioè i sovrintendenti, a signori eletti dal popolo? Questa è l’atmosfera al cui interno ci muoviamo. La partita è complicata, ma va combattuta. Questo quadro parte da lontano e vede responsabilità plurime, tra le quali certamente quelle del centrodestra sono particolarmente gravi, non fosse altro perché il centrodestra include una formazione politica, come An, che avrebbe dovuto assumere un atteggiamento di contrapposizione a certe posizioni e di difesa di certi valori e prospettive. Però è una battaglia che bisogna condurre. Ma è la filosofia complessiva che si è modificata ed è lì che bisogna incidere, su questa logica di elettoralismo populistico e di demagogia della sovranità popolare. Ma allora cosa si può fare? Cosa possono fare delle forze anche di diverso colore politico, per impedire che questo scempio venga perpetrato?

MELANDRI. Vorrei dire al presidente Fisichella: è molto vero ciò che dici sulla visione antistatuale, però aggiungerei un aspetto, c’è una visione anche proprietaria dello Stato, e c’è, in questi ambiti della vita politica, io assocerei a questa riflessione ciò che sta accadendo nella scuola e nella sanità, voglio dire che le politiche culturali sono un pezzo del Welfare, c’è l’idea di voler dimostrare che lo Stato non può farcela. Ora una riflessione per il centrosinistra: io penso che noi abbiamo combattuto nella scorsa legislatura dure battaglie, che sostanzialmente le abbiamo vinte, con l’eccezione dell’ambivalente soluzione sulla scissione tra valorizzazione e tutela, presente nel Titolo V. Io, però, non mi ritengo soddisfatta e penso che il fatto che i governi dell’Ulivo, in cinque anni, abbiamo fatto del «mai più un condono edilizio» una stella polare ed abbiano abbattuto alcuni ecomostri, anche se simbolicamente; il fatto che fossero stanziati, anche in un’epoca difficile per la congiuntura economica e finanziaria del nostro Paese, risorse consistenti per il restauro, per la valorizzazione, insomma centinaia di cantieri aperti e chiusi un po’ in tutta Italia, tutti fatti che oggi noi vediamo azzerati, penso che il centrosinistra, che oggi è alle prese con il progetto alternativo di governo, di tuto questo debba far tesoro. E affermare senza tentennamenti che ci vuole più spazio pubblico, ci vuole una forte mano pubblica nel rilancio del Welfare e nel rilancio delle politiche culturali italiane. E che i privati posso associarsi ad uno Stato forte, non ad uno Stato debole. Ora, mi ha colpito che su queste tematiche, ad eccezione della tua autorevolissima voce, non si sia levata una voce di dissenso nel dibattito parlamentare. Ultimissima cosa: la mortificazione delle competenze tecniche. Che cosa si può fare? Di fronte al silenzio/assenso come strumento perentorio di esercizio della propria funzione, queste sovrintendenze mortificate hanno uno strumento che è quello di dissentire, dissentire sempre e comunque.

CHIARANTE. Occorre ripartire con la battaglia che riaffermi in tutto il campo del Welfare il fatto che ci sono settori in cui c’è un compito pubblico che è preminente. Anche come sinistra dobbiamo assumerci in pieno le nostre responsabilità per certe concessioni eccessive al privatismo, alla teoria del libero mercato.

FISICHELLA. Se dovessi indicare un punto sul quale potrebbe avviarsi un lavoro in positivo molto importante è quello relativo alle riforme costituzionali che oggi sono in discussione in Parlamento: fermare questa riforma costituzionale avrebbe un valore simbolico dal punto di vista politico straordinario. Se si riuscisse a fare esplodere, come si diceva una volta nel linguaggio del marxismo, le contraddizioni all’interno della coalizione di centrodestra, e far venire allo scoperto e ci sono forze che rispetto a questa maniera di intendere il federalismo hanno un atteggiamento critico, io credo che davvero si potrebbe riaprire tutta una importante partita.

EMILIANI. Noi siamo, dico noi in generale, stati in questi due anni e mezzo sotto una sorta di bombardamento che ha colpito e, ahimé, demolito spesso presidi e persone della tutela. C’è stata certamente una intensificazione dei movimenti, per esempio le 19 Associazioni hanno costituito un tavolo comune presso il WWF. Ci sono dei siti, per esempio Patrimonio Sos, che stanno lavorando molto.

Però io a questo punto mi chiedo che cosa ne pensino i partiti, anzitutto quelli del centrosinistra. Che posizione hanno i Ds? C’è un progetto della Regione Toscana, che io valuto negativamente, per una attribuzione regionale della tutela. La Regione Toscana, se non avesse subdelegato i Comuni in materia paesistica, forse avrebbe avuto titoli migliori per esibire questo progetto. E poi eravamo contro lo spezzatino dei beni culturali ed ambientali ai tempi del Titolo V e lo siamo ancora oggi. Qui, poi, non si è potuto parlare perché è mancato il tempo, e anche perché c’è una specie di sonno inquieto e malato, dei parchi: parchi nazionali, regionali, le aree protette. Negli anni Novanta siamo arrivati con fatica e con dolore a 17 parchi nazionali, al 10% del territorio tutelato; oggi i parchi vengono visti anche essi come una specie di luogo di turismo, di gioco, di lunapark, magari da riaprire un po’ alla caccia, dove si può, si affaccia, anche qui, una visione mercantile. Noi dobbiamo ridisegnare una politica alternativa e discutere di questo. Battiamoci per qualche cosa di veramente alternativo, con tutte le forze possibili che ci sono, anche a destra.



(a cura di Maria Serena Palieri)

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