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Ida Dominijanni
Ruspe
19 Gennaio 2010
Scritti 2010
Lo sciopero degli immigrati (1° marzo) ci attende: ”non per aiutarli, ma per farci aiutare a dire no”. Il manifesto, 12 gennaio 2010

Dicono che ci faranno una piazza, al posto del campo di Rognetta raso al suolo da una ruspa. Dovrebbero intitolarla all'umanità perduta. Dicono che qualcuno degli africani di Rosarno, prima di salire sull'autobus diretto a Crotone o a Bari o chissà dove, abbia lasciato scritto «We'll be remembered, we'll not forget» nel campo in cui viveva. Nemmeno noi dimenticheremo. La sopravvivenza sotto la soglia dell'umano in quei campi. La rabbia violenta che sola dà voce all'umano quando tutto gliela toglie. Il marchio disumano, per chi la fa prima che per chi la subisce, della caccia al negro, e poi della deportazione, e poi delle colonne in attesa di ricovero nei campi di accoglienza. E quella ruspa a siglare la fine: l'ordine è stato ristabilito.

Non è vero. Non c'è ordine dopo queste immagini. Il caso non è chiuso, la vergogna non è consumata, il territorio non è riconquistato, il debito non è saldato. Tutto invece si spalanca, quando la posta in gioco è l'umano, e tutto ci interroga. E niente, ma proprio niente, può ricominciare come prima. Farebbe bene a pensarci, il Senato della Repubblica, prima di ascoltare, oggi, il Ministro degli Interni riferire sul caso Rosarno. Perché non è solo Maroni ad aver travalicato il segno della decenza prendendo per intollerabile non le condizioni dei migranti ma la loro accoglienza. È tutta la classe politica italiana, l'opposizione in primo luogo, a giocarsi la faccia se su quelle immagini manderà a sua volta le ruspe. Ci sono le regionali, c'è il dialogo sulla giustizia, the show must go on: questo sì che sarebbe intollerabile.

Nemmeno provino, maggioranza e opposizione, ad alimentare la gara già in corso su svariate testate a chi si scopre più razzista, se il Nord leghista o - sorpresa! - il Sud pronto a diventarlo. I fatti di Rosarno, innescati dai rampolli della 'ndrangheta, preceduti da una lunga prova di convivenza e circondati da esperienze esemplari di accoglienza, hanno una dinamica che poco lo consente. Provino piuttosto a pensare, se ci riescono, a questo. Mentre per vent'anni la classe politica italiana si è dilettata di questione settentrionale, facendo dell'area più ricca del paese la vittima della globalizzazione, dell'immigrazione, della società del rischio e dell'ansia, nel Sud la globalizzazione penetrava con la sua faccia più feroce, quella della nuova schiavitù e dell'illegalità criminale organizzata. Si chiama capitalismo postnazionale, attizza focolai di guerra civile globale a Rosarno come a Calais come a Dubai e nessuna ruspa viene mai mandata né a raderlo al suolo né a civilizzarlo. La ruspa che rade al suolo la Rognetta, invece, racconta una storia lunga mezzo secolo: di industrializzazione promessa e mancata, di emigrazione dolorosa ieri e di immigrazione dolorosa oggi, di territori lasciati alla speculazione, al cinismo mafioso e ai compromessi col cinismo mafioso. Ferite dell'umano, mentre lo show andava avanti.

C'è la cronaca dei fatti, e ci sono fatti che interrompono la cronaca, la sospendono, domandano un salto, segnano un prima e un dopo. Dopo Rosarno, lo show non può andare avanti come prima. Può però tragicamente precipitare, se quella ruspa, quella caccia al negro e quelle deportazioni venissero riconosciute anche per un solo momento come precedenti attendibili della via italiana all'ordine. Occorre urgentemente fare disordine. Lo sciopero degli immigrati è la prima occasione che ci attende. Non per aiutarli, ma per farci aiutare da loro a dire no.

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