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Roma, una rassegna dello "scandalo Raggi-Marra
18 Dicembre 2016
Roma
Articoli di Eleonora Martini, Manuela Perrone, Marco Travaglio, Alessandro Trocino, Andrea Arzilli, Corrado Augias,
Articoli di Manuela Perrone, Marco Travaglio, Alessandro Trocino, Andrea Arzilli, Corrado Augias, Paolo Graziano e Massimo Almagisti da il manifesto, il Sole 24 ore, Il Fatto Quotidiano, Corriere della sera, La Repubblica, 18 dicembre 2016 (c.m.c.)

il manifesto
VIRGINIA RAGGICOMMISSARIATA,
IL MINI DIRETTORIO RIPRENDE
IL CONTROLLO ROMA.
«Dopo la terza riunione fiume, la sindaca accetta il diktat di Grillo e dei big del Movimento: via il raggio magico per salvare la giunta. Si dimettono il vicesindaco Daniele Frongia e il capo della segreteria politica Salvatore Romeo. La pace è fatta. In serata il comico genovese riconosce Virginia sindaca del M5S»

Non c’è il notaio ma anche così la sensazione di déjà-vu è forte. Alla terza riunione fiume in due giorni con i consiglieri di quella che stava per diventare la sua ex maggioranza, per tentare di salvare capra e cavoli Virgina Raggi capitola ad una sorta di commissariamento.

La sindaca di Roma cede all’aut-aut dell’inviperito Beppe Grillo che ieri ha lasciato all’alba la Capitale senza incontrarla, e accetta il diktat del disciolto mini direttorio romano che si riprende così il controllo sulla giunta pentastellata: fare fuori il capo della segreteria politica Salvatore Romeo che insieme a Raffaele Marra, arrestato per corruzione, aveva in mano le chiavi della macchina capitolina, e declassare ad assessore il vicesindaco Daniele Frongia, sulla cui amicizia Marra aveva fatto perno per ottenere la completa fiducia della prima cittadina.

A sera, una nota del Campidoglio formalizza le dimissioni: «Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. A breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati». Trasferimenti in vista potrebbero esserci anche per Renato Marra, fratello di Raffaele, appena promosso a capo della direzione turismo.

La pace è fatta. Sugellata anche da Beppe Grillo in persona che subito dopo pubblica sul blog: «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle».

Per tutto il pomeriggio di ieri però i 29 consiglieri e la sindaca si sono asserragliati a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana, per trovare una exit strategy al pantano romano che rischia di inficiare le magnifiche sorti e progressive nazionali. Tutt’altro che una serena riunione di maggioranza, una vera e propria resa dei conti. Virginia Raggi ha preso più volte in considerazione l’ipotesi di «autosospendersi» dal M5S, almeno finché non fosse chiaro che su di lei non pende alcuna ipotesi di reato.

Un termine – autosospensione – giuridicamente vuoto ma che avrebbe sortito l’effetto di dare un segnale immediato di discontinuità, come preteso da Grillo, e contemporaneamente prendere tempo, come caldeggiato da Davide Casaleggio. Un modo per evitare il ritiro del simbolo d’imperio, invocato ormai a gran voce dall’ala ortodossa grillina ma osteggiato dal presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e dal capogruppo Paolo Ferrara. Senza simbolo del M5S la giunta non avrebbe avuto infatti lunga vita, e il ritorno alle urne sarebbe stato inevitabile. Con l’autosospensione invece la consiliatura avrebbe potuto continuare, potendo contare sull’appoggio esterno dei grillini.

Una soluzione a dir poco artificiosa, degna dei migliori strateghi politici. Ma sembrava l’unica possibile. «Non mi sento più parte del M5S, non mi ci riconosco più», avrebbe detto più volte la sindaca (parole poi smentite dal Campidoglio ma senza grande convinzione) ai componenti di quel suo “raggio magico” che ora ha accettato di sacrificare.

Grillo non ha lasciato margini di dubbio: «Romeo si deve levare dal c…», avrebbe ordinato al telefono durante il tragitto in treno da Roma a Genova (evidentemente non era solo sul vagone). E Frongia va ridimensionato. I rumors parlano di un avvicendamento con l’assessore alle partecipate Massimo Colomban, l’imprenditore veneto che Casaleggio Jr aveva voluto in giunta poco più di due mesi fa. L’incubo del comico genovese è che si concretizzi quel rischio ipotizzato da ben «cinque avvocati», come avrebbe puntualizzato al telefono.

Ma a parte l’eco delle parole di Grillo, trapela ben poco dalla blindatissima riunione di Palazzo Valentini. Il silenzio è totale perfino sui social. Roberto Fico annulla «L’intervista» da Maria Latella, i consiglieri escono alla spicciolata e rispettano la consegna del silenzio. Solo poche parole pronunciate da De Vito dopo la riunione con le quali il presidente dell’assemblea capitolina non smentisce la tentazione di Raggi di lasciare il M5S.

Il dèjà-vu è, appunto, forte. Appena un paio di giorni fa Paolo Ferrara aveva assicurato che quel che era successo con il Pd non si sarebbe potuto ripetere con «una comunità di fratelli impegnati per il bene» di Roma. Ieri sera a Otto e mezzo l’ex marziano dem Ignazio Marino, lo ha contraddetto: «Un anno fa un sindaco veniva tolto tramite notai e oggi un comico di successo commissaria il sindaco di Roma. Ma allora perché i cittadini dovrebbero andare a votare?».

il Sole 24 ore

RAGGI CEDE AGRILLO:
FUORI FRONGIA E ROMEO
di Manuela Perrone

«Accantonate per ora le ipotesi di autosospensione o rimozione del marchio - Il leader: errori ma avanti»

Alla fine della seconda giornata più difficile per il M5S prevale la soluzione “minima”, quella prudente e attendista suggerita da Davide Casaleggio per salvare la giunta capitolina dopo l’arresto di Raffaele Marra: via quel che resta del “raggio magico”, Daniele Frongia e Salvatore Romeo, che ieri sera hanno rinunciato all’incarico rispettivamente di vicesindaco e di capo segreteria della sindaca di Roma Virginia Raggi. «Barra dritta e avanti tutta», scrive Beppe Grillo sul blog in serata. «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento Cinque Stelle. Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo».

Resta in canna, per ora, l’altro colpo ipotizzato ieri, silenziato da un bagno di realpolitik: la richiesta a Raggi di autosospendersi. Come invocano gli ortodossi del M5S che chiedono un taglio netto con la giunta capitolina prima che sia tardi. Qualcuno si lascia sfuggire quel che tanti pensano: «Un avviso di garanzia a Raggi sarebbe un toccasana».

L’allusione è all’inchiesta della procura di Roma sulle nomine, tra cui quella di Romeo, che potrebbe vedere la sindaca indagata per abuso d’ufficio. A quel punto – è la tesi – nessun compromesso sarebbe più possibile. «Invece così ci lasciano a bagno, con il rischio di farci morire». Ma dal blog il “capo politico” Grillo sembra prepararsi anche a questa evenienza, quando scrive: «A breve definiremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi, comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia. Nessuno pensi di poterci fermare così».

La tregua raggiunta ieri sera è arrivata al termine di due riunioni di maggioranza, l’ultima delle quali durata quasi cinque ore, che si è tenuta a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana. Grillo era partito all’alba per Genova, concludendo infuriato e deluso la trasferta romana peggiore di sempre. All’Hotel Forum aveva incontrato alcuni tra i parlamentari e i consiglieri, tra cui le deputate Roberta Lombardi e Carla Ruocco, da sempre le più critiche con la giunta Raggi. Ruocco ribadisce secca: «Sono fiera di essere sempre dalla parte delle persone perbene. E dalla parte delle persone perbene resto».

La proposta di togliere il simbolo a Raggi (che aveva sondato senza successo l’ipotesi di proseguire senza marchio) non è passata. Secondo indiscrezioni, la sindaca avrebbe comunque tentato di resistere, chiedendo il supporto dei consiglieri e cercando sponde a destra, tra i banchi di Fratelli d’Italia. Quella destra che – attacca il Pd – rappresenta il vero terreno di coltura della sua giunta, l’area grigia (con il supporto dello studio legale Sammarco, da cui Raggi proviene) che detta le sue scelte.

Il clima tra i Cinque Stelle è vitreo. I cosiddetti “pragmatici” si sono eclissati: nessuna notizia del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che pure è sfilato davanti a Grillo senza quasi proferire parola, raccontano. «È lui il responsabile di tutto questo», mormorano in tanti. Sparito anche Alessandro Di Battista, che fino all’ultimo aveva provato a sostenere Raggi, tra i principali sponsor della linea “oneri e onori” sposata dopo la bufera di settembre (la raffica di dimissioni e la notizia dell’ex assessora all’Ambiente Paola Muraro indagata).

Il presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, Roberto Fico, che incarna l’anima movimentista delle origini e ha definito «gravissimo» quel che è successo a Roma, disdice la partecipazione a “L’intervista” di Maria Latella in tv. L’impressione è quella di un Movimento vicino a sgretolarsi. Che naviga a vista, quasi paralizzato.

Scosso da divisioni su divisioni: una sorta di tutti contro tutti. Ortodossi versus pragmatici, appunto. Ma anche consiglieri comunali contro parlamentari. E consiglieri più severi contro quelli più morbidi, convinti che siano i deputati e le loro iniziali interferenze i principali responsabili della deriva della giunta. Con la sindaca che ha resistito fino all’ultimo, chiusa in una sorta di bunker emotivo e politico, difendendo ostinatamente i suoi fino all’ultimo, Frongia in particolare.
Che mantiene le deleghe alle Attività giovanili e allo Sport. Sarà sacrificato anche Renato Marra, il fratello di Raffaele, l’ex vicecomandante dei vigili urbani promosso a inizio novembre a capo della direzione Turismo del comune, con la firma del fratello e la difesa accorata della sindaca in una lettera all’Anac.

Raggi ha annunciato anche l’altra condizione imposta da Grillo: l’avvio di una due diligence su tutti gli atti firmati fin qui da Raffaele Marra. Sia quando era vice capo di gabinetto sia quando, dal 7 settembre scorso è stato trasferito alla guida del dipartimento Personale (casella cruciale, il Campidoglio conta 23mila dipendenti). Altra fatica che sottrae tempo alle vere emergenze della capitale.

il Fatto quotidiano online
SALA DI RIANIMAZIONE
di Marco Travaglio

Giorgio Bocca lo chiamava “il Paese di Sottosopra”, ma era un eufemismo. Questo è un manicomio, però gestito non dagli psichiatri, ma dai matti. A Milano c’è un sindaco indagato per falso materiale e falso ideologico sul principale appalto del principale grande evento degli ultimi anni: l’Expo 2015. Il sindaco si “autosospende” e si fa sostituire dal vicesindaco, inventandosi un istituto giuridico che non esiste in natura e nell’ordinamento, giustificato con un “impedimento temporaneo” anch’esso inventato visto che le indagini non gli impediscono di esercitare le sue funzioni.

Una penosa manfrina per fare pressioni sulla Procura generale che ha osato riesumare l’inchiesta sepolta dalla Procura ordinaria e riaperta dal gip. E tutti, compreso Salvini, implorano Sala di restare al suo posto perché “Milano dev’essere governata”. Intanto a Roma viene arrestato il capo del Personale del Comune per fatti estranei e precedenti all’attuale amministrazione (una casa comprata nel 2013 con soldi del costruttore Scarpellini) e tutti chiedono le dimissioni della sindaca Raggi che l’aveva nominato senza sapere – né poter sapere – nulla di quel fatto, scoperto dalla Procura di Roma con intercettazioni e indagini patrimoniali.
Evidentemente “Roma non dev’essere governata”, o almeno non da lei. Tra i più feroci censori della sindaca ci sono alcuni dei suoi compagni (si fa per dire) di movimento, riuniti in permanenza per processarla in contumacia (la presenza dell’“imputata” non è prevista), che pretendono, in alternativa o in accumulo: la testa della Raggi, quella del vicesindaco Frongia, quella del suo capo-segreteria Romeo.
I quali non sono accusati né indagati di nulla e non si sa bene di che debbano rispondere, a parte dell’essersi fidati di un dirigente mai inquisito né sospettato di corruzione fino all’altroieri. Infatti nessuno li convoca per ascoltare la loro versione dei fatti, né propone nomi formidabili al posto loro. Poi c’è chi approfitta del disastro romano per regolare i conti con Di Maio, invidiatissimo perché risulta il più autorevole parlamentare M5S, e non per investitura divina, ma per la più impietosa delle selezioni naturali: quella darwiniana.

L’espressione “caos Raggi”, rubrica fissa sui giornaloni e sui tg Rai, Mediaset e Sky, riassume all’ingrosso e a senso unico un groviglio di responsabilità: la drammatica difficoltà e la terribile impreparazione manifestata dalla Raggi e dall’intero M5S nel trovare una classe dirigente all’altezza per governare un Comune allo sfascio; e il totale inquinamento della burocrazia capitolina, dove il più pulito ha la rogna.

Non avendo una squadra all’altezza sia per l’inadeguatezza sua e del M5S, sia per la scarsa collaborazione della “società civile”, la sindaca ha formato una giunta di esterni al M5S, cercando di valorizzare alcuni pezzi di establishment per orientarsi in un palazzo infetto dalle fondamenta con 23mila tra dipendenti e dirigenti (tra cui moltissimi indagati).

L’operazione è miseramente fallita, nonostante precauzioni più stringenti di quelle adottate da qualunque altro sindaco: la richiesta, a chiunque si candidasse a una nomina, non solo della fedina penale immacolata, ma addirittura del certificato di nessuna indagine a carico; e il vaglio di Cantone sulle nomine dello staff. Fu per questo che si scoprì che la nomina della Raineri a capo di gabinetto era illegittima; che l’assessora Muraro era sotto inchiesta per reati ambientali; che il Pg della Corte dei Conti De Dominicis, neoassessore al Bilancio, era pure lui inquisito. Su Marra invece nulla risultava, né sotto il profilo penale né sotto quello amministrativo, salvo la questione tutta politica di aver collaborato con giunte precedenti, come il 99% dei funzionari e dei dirigenti comunali, non soggetti allo spoils system.

Quando un altro sindaco-marziano, Luigi De Magistris, si insediò nel 2011 in un altro Comune disastrato, quello di Napoli, nominò 12 assessori e poi ne cambiò 11 in cinque anni (totale 23), prima di trovare la quadra e la stabilità. Lo stesso Sala è stato costretto ad avvicendare vari collaboratori indagati o non idonei. Questi sono i fatti, nudi e crudi. Anziché invocare la testa di questo e quello, capi e capetti dei 5Stelle farebbero bene a ragionare con loro, di testa, e non con le viscere. Partendo dall’unica bussola che dovrebbe orientarli: le aspettative dei romani che sei mesi fa hanno chiesto loro di governare la Capitale. Se la Raggi fosse stata beccata a commettere reati o a tenere condotte indecenti, andrebbe sfiduciata. Ma non è questo il caso. Quindi governi, se ne è capace. Poi verrà giudicata per quello che avrà fatto.

Certo, è bizzarro che il caso Marra provochi discussioni infinite e appassionate in un movimento che passa per autoritario e verticistico, mentre il caso Sala non suscita il minimo stormir di fronda in un partito che si fa chiamare “democratico”, si vanta di discutere liberamente di tutto e un anno fa sfiduciò davanti al notaio il sindaco Marino per uno scandalo infinitamente meno grave.

Nessuno pensa che Sala debba dimettersi perché è iscritto nel registro degli indagati (anche se il suo partito, per lo stesso motivo, ha chiesto per mesi le dimissioni della Muraro): se ne riparlerà a fine indagine. Ma se, tra le 12 o 18 correnti del Pd, per non parlare della stampa, non si leva una voce su un sindaco probabilmente ineleggibile e sospettato di aver falsificato atti e truccato appalti, mentre sono tutti impegnati a chiedere le dimissioni della Raggi, qualche riflessione sulla diversità del M5S andrà fatta. I 5Stelle si impegnano allo spasimo per regalare agli altri il comodo slogan “siete uguali a noi”. Ma gli altri ce la mettono tutta per dimostrare che i 5Stelle sono diversi.

Corriere della sera

VIA IFEDELISSIMI.
E GRILLO SALVA RAGGI
di Alessandro Trocino
«Roma, si dimettono Frongia e Romeo. Ipotesi sospensione della sindaca in caso di avviso di garanzia»
Grillo dà la linea: «Roma va avanti con Virginia Raggi. Da oggi si cambia marcia». Via il vicesindaco Frongia e Romeo, capo della segreteria. A Milano appello a Sala per restare.

Ha provato a resistere fino all’ultimo, nel bunker di Palazzo Valentini, mentre al Campidoglio andava in scena Suburra . Nel senso che, per quelle bizzarre coincidenze della storia, proprio lì si era stabilito il set della serie tv sul malaffare capitolino. Alla sette di sera, dopo cinque ore di trattative esterne con i vertici M5S e interne con i consiglieri comunali, Virginia Raggi china la testa, accettando i diktat del Movimento. Per salvare se stessa e la sua giunta da un tramonto inevitabile. Da lontano sorridono (ma non troppo) Beppe Grillo e soprattutto Davide Casaleggio, vero ispiratore di una soluzione non traumatica, preoccupatissimo di una rottura.

Il post mai pubblicato

Molte ore prima, alla mezzanotte di venerdì, la sindaca si barrica in Campidoglio, con i consiglieri riuniti al capezzale della giunta, come nel famoso videoselfie. Quasi una veglia funebre, per una partita data quasi per persa. Perché dall’Hotel Forum giunge la notizia di una mannaia imminente: un post, già pronto, impaginato e firmato, con la revoca del simbolo. Ma il tasto «pubblica» non sarà mai premuto. Perché a quell’ora c’è il primo dei tanti colpi di scena: vanno online i giornali del mattino.
Grillo e Casaleggio cercano la giudiziaria e tirano un sospiro di sollievo: non ci sono intercettazioni compromettenti con la Raggi. Così, si va al piano B, suggerito tra gli altri da Paola Taverna, ma non condiviso dagli ortodossi come Roberta Lombardi, Roberto Fico e Nicola Morra: un diktat, prendere o lasciare, con la rimozione da vicesindaco di Daniele Frongia, la cacciata e il ridimensionamento di Salvatore Romeo e di Renato Marra. Ma anche l’affiancamento di un pool di avvocati per verificare gli atti degli ultimi mesi e un cambio radicale dell’assetto della Comunicazione, anche e soprattutto dopo il tetro videoselfie notturno.

Lo scontro su Frongia

La sindaca, alle due di notte, verifica la tenuta di un’eventuale maggioranza senza il simbolo. Verifica compiuta: «Ragazzi, non ce la facciamo». La notte si consuma nell’incertezza. Grillo riparte per Genova all’alba, dopo ore di telefonate con Casaleggio, stremato. La Raggi si sveglia presto. La notte pare abbia portato consiglio. Fa arrivare al quartier generale M5S il suo via libera. Con una condizione: «Ok, ma prima devo vedere i consiglieri». Si rifà un post e lo si mette in attesa.
Ma ecco un nuovo colpo di scena. La Raggi alza il telefono e richiama, con lo stesso tono che ha avuto in questi giorni, definito dalla controparte «algido»: «Ho cambiato idea, Frongia non si tocca». Dall’altra parte trasecolano. Speravano di aver vinto la sua resistenza, ma Virginia sembra non mollare mai. L’avviso di garanzia per la sindaca, però, è in arrivo e dato per certo, con la possibilità che le si chieda di autosospendersi. Il vicesindaco, a quel punto, ne assumerà le funzioni. Ma i vertici M5S vogliono un proprio uomo. E chi meglio di Massimo Colomban, uomo della Casaleggio associati, già imposto alle Partecipate? Lui, di fatto, diventerà il «sindaco ombra».

La seduta fiume

Raggi alle due del pomeriggio convoca i consiglieri di maggioranza a Palazzo Valentini, sede della Provincia. Fa melina, chiede ai consiglieri di votare, prende tempo. Continuano i contatti con l’esterno. I vertici M5S le fanno arrivare messaggi come: «Se non mandi via Frongia, vai a casa». Con tanto di penale da 180 mila euro, come prevede il contratto firmato all’atto dell’insediamento con la Casaleggio. Su piazza Venezia si addensano ombre cupe. Un’agenzia batte una frase della Raggi: «Non mi riconosco più nel Movimento». La smentita arriva subito. Ma intanto passa una Smart con una scritta che sembra premonitrice: «Ciao Roma».

L’epilogo

Raggi cede su Frongia: «Va bene, non sarà più vicesindaco, ma deve restare in giunta». E così il fedelissimo collaboratore, nonché amico di Marra, resterà in giunta: come assessore allo Sport, stessa materia destinata a Luca Lotti, braccio destro di Renzi, nel governo Gentiloni. Ma la battaglia non è finita. Perché Raggi prova a resistere anche su Colomban. Lei vuole Andrea Mazzillo, attuale assessore al Bilancio. Per sparigliare le carte, chiede che siano i consiglieri a votare per decidere. Grillo si infuria. Alle 18, il presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito esce da una porta laterale. È irritato: sperava di diventare vicesindaco. E come lui Paolo Ferrara, altro «lombardiano» (nel senso di Roberta Lombardi).

A De Vito non sono piaciute le parole della Raggi. Che si scusa con i consiglieri — «ho fatto degli errori» — ma attacca Carla Raineri. Colomban, salvo contrordine dell’ultima ora, è il predestinato. Il post Il «raggio magico» è decimato, le ultime resistenze vinte. Manca solo il timbro finale. Poco dopo le 20, Virginia Raggi abbandona Palazzo Valentini con un sorriso forzato. Alle 21.45, per la prima volta da giorni, Raggi e il Movimento parlano all’unisono. Il blog titola: «Barra a dritta e avanti tutta». Seguono 16 righe a firma Beppe Grillo e 10 a firma Virginia Raggi. Nelle prime le bacchettate: «Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo». Nelle seconde, l’annuncio della resa, mascherata da «cambiamento». Da domani, la Raggi non sarà più sola. Andrà avanti, scortata e controllata a vista

Corriere della sera

LA RESA DI RAGGI.«SI VA AVANTI CON LEI»
di Andrea Arzilli

Fuori il vicesindaco Daniele Frongia e il capo della segreteria politica Salvatore Romeo, rimosso dalla direzione Turismo Renato Marra, fratello di Raffaele arrestato venerdì mattina: «Via il Raggio magico o via il simbolo», insomma. È l’ultimatum del M5S che la sindaca Raggi ha deciso di raccogliere alla fine di un’altra giornata di trattative serrate. «Al termine delle ultime due riunioni di maggioranza, e dopo un confronto con il garante Beppe Grillo — il post esce in contemporanea sul blog del leader e sulla pagina Facebook di Raggi —, abbiamo stabilito di dare un segno di cambiamento.

Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. Al contempo a breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati».
Una resa dei conti, nel corso di un’altra lunghissima assemblea di maggioranza tenutasi stavolta a Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana, perché in Campidoglio gli stanzoni erano occupati dalle troupe di una fiction.

Una riunione dalla quale la sindaca è uscita di fatto commissariata dopo aver comunque tentato di tenere duro sui suoi uomini di fiducia: ha insistito per avere come vice Andrea Mazzillo, l’assessore al Bilancio, ma il posto di Frongia alla fine dovrebbe prenderlo l’assessore alla Partecipate Massimo Colomban, uomo vicino a Casaleggio.

In più, sarà varato un codice etico per gli eletti e un pool di legali 5 Stelle vigilerà sugli atti dell’amministrazione per azzerare il rischio di un nuovo caso nomine. A cominciare dalla prima in programma: Grillo ha chiesto di assegnare già domani la delega all’Ambiente che era di Paola Muraro. Ieri Raggi, sulla quale pende anche la grana Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica in bilico, ha perfino cercato l’appoggio esterno della destra di FdI per andare avanti da sola. O almeno per provarci, visto che sulla sindaca pende sempre il rischio di finire indagata per le nomine fatte nei sei mesi di governo, quella di Salvatore Romeo in primis.

Beppe Grillo, in ogni caso, ha chiarito che la spina non è stata staccata. «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle — scrive il leader M5S sul blog —. Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo. Da oggi si cambia marcia. Bisogna riparare agli errori fatti per fugare ogni dubbio. Governare Roma è più difficile di governare il Paese. Lo sapevamo e non intendiamo sottrarci a questo compito assegnatoci dal popolo. Combatteremo con le unghie e con i denti perché Roma cambi, ma in un ambiente così corrotto e marcio dobbiamo aspettarci di tutto. Mettiamo la barra a dritta e avanti tutta».

La Repubblica
BASSO IMPERO
di Corrado Augias
«La crisi dell’ultimo decennio è l’emblema della grande debolezza di una città vittima della sua eterna vocazione plebea. Con problemi che si ripresentano sempre uguale»

Che Virginia Raggi avrebbe fallito era un po’ scritto nei suoi precedenti ambigui e inadeguati, nelle voci unanimi che descrivevano una donna alle prese con un incarico superiore alle sue forze, probabilmente alle forze di chiunque, così spaventoso da dare inaspettata verosimiglianza alla celebre frase della senatrice Taverna prima delle elezioni: c’è un complotto per farci vincere.

Sembrava una battuta paradossale, alla Crozza, come minimo una gaffe. Tutti risero. Invece, nel suo candore popolaresco, la senatrice aveva visto giusto; non era un paradosso ma una profezia. Non il complotto naturalmente, ma l’estrema difficoltà della prova certamente sì.

Gli aspetti politici, amministrativi e tecnici in questi giorni sono stati esaminati di sopra e di sotto. Io stesso ho fatto notare l’improvvida decisione della sindaca di mettere alla porta, appena nominata, Raffaele Clemente, capo della polizia municipale chiamato da Ignazio Marino, che stava cercando di mettere ordine in un settore lasciato agli appetiti famelici di consorterie, bande, “famiglie”.
Qualcuno, oggi possiamo perfino sospettare chi, consigliò l’inesperta Virginia, di liberarsi subito di quel rompiscatole che voleva ricondurre i tavolini all’aperto dei ristoranti nei limiti della concessione comunale, far ruotare gli incarichi e le funzioni dei vigili per limitare i ripetuti episodi di corruzione, dare una disciplina alle decine di venditori abusivi che assediano romani e turisti: caldarroste, aste per i selfie, fazzoletti di carta, orologi finti, mostruosi pupazzi di plastica, ombrelli.
In una giornata di pioggia ho comperato anch’io un ombrellino per 5 euro. Ho chiesto al ragazzo che me lo vendeva: arriverà fino a stasera? Con simpatico candore, mi ha risposto: non lo so. O forse ha detto non credo, ricordo solo un sorriso bellissimo e l’evidente divertimento di dirmi la verità dopo aver intascato quella modesta somma.
Credo di sapere perché Virginia s’è circondata di personaggi discutibili, perché ha fatto nomine disdicevoli, forse illegittime, smarrendosi nei meandri del Campidoglio sotto il peso dell’eredità lasciata dalla pessima giunta Alemanno che l’ha preceduta. Virginia Raggi ha cominciato a lavorare nello studio Sammarco che fa parte della galassia di Cesare Previti.
Si racconta che quando Previti entrava nel suo circolo canottieri, i soci più giovani lo salutavano festosi alzando il braccio nel saluto romano, gridando in coro: Ave Caesar! Oggi le possiamo quasi considerare ingenuità romantiche, goliardia, se paragonate alle ingiurie urlate in coro nelle piazze a piena gola che il Movimento ha poi introdotto come metodo politico, se possiamo chiamarlo così; cose di tale gravità nessuno le avrebbe mai immaginate ma — il che è ancora peggio — nessuno ormai ci bada più. Virginia è maturata tra quelle persone e nell’ambiente neofascista romano, quindi non bisogna troppo stupirsi se da uomini di quello stesso ambiente s’è fatta suggerire le nomine, se le persone più responsabili che ha chiamato sono velocemente fuggite appena capito che aria tirava.
Non è la prima volta che a Roma succedono cose molto gravi anche se l’attuale amministrazione dei Cinque Stelle vi ha aggiunto il connotato inedito di un sindaco (una sindaca) vincolata da un contratto con una società privata che stabilisce in pratica i limiti della sua azione; questo francamente non s’era mai visto.

Chi ha la mia età ricorda invece benissimo certe amministrazioni democristiane di mezzo secolo fa e più, prone al volere dei costruttori e delle maggiori società immobiliari, gli scempi impuniti, gli anni che ci vollero per trasferire una raffineria di petrolio che con l’estendersi dell’abitato era finita con i suoi fumi pestilenziali in mezzo alle case, gli abusi in luoghi come l’Appia Antica che dovunque nel mondo sarebbero stati ritenuti sacri — oltre che una cospicua fonte di reddito per la collettività.

Di fronte a quel passato le amministrazioni Rutelli e Veltroni sono state tra le rare parentesi dove pareva che il sindaco avesse voglia di occuparsi dei problemi cittadini e non di quelli della sua giunta. Anche prima c’erano stati sindaci di alta qualità: Petroselli o Argan, prima ancora (molto prima) Ernesto Nathan, insomma s’era visto più volte che non era impossibile dare a Roma un’amministrazione all’altezza di una capitale europea.
Ignazio Marino ha cercato di intonarsi a quei precedenti, è scivolato sulla sua inesperienza, sulla sottovalutazione di problemi gravi, sull’ostinata presunzione di fare da solo scegliendo i candidati alle cariche su Internet per liberarsi dal soffocante abbraccio dei partiti. Il risultato sono state alcune nomine stonate di cui la città ancora paga le conseguenze.
Se volessimo inquadrare l’entusiastica elezione e il desolante apprendistato di Virginia nella più ampia vicenda della città, potremmo richiamare la costante vocazione plebea di Roma, i suoi eterni problemi con le immondizie testimoniati dalle targhe marmoree murate qua e là. Non dipende certo da una caratteristica genetica degli abitanti, ma dal fatto che a quello per secoli la popolazione è stata ridotta. Per troppo tempo a Roma non è esistita una borghesia consapevole, il “popolo romano” era fatto di nobili legati al trono pontificio chiusi nelle loro fastose dimore e di una plebe largamente analfabeta, riottosa, la stessa alla quale l’immenso poeta Giuseppe Gioacchino Belli ha eretto un monumento con i suoi 2.279 sonetti. Bellissimi da leggere, durissimi da vivere.

il manifesto
ROMA, LA CRISI DI CRESCITA
DEL MOVIMENTO 5 STELLE
di Paolo Graziano e Massimo Almagisti

Prima le dimissioni dell’assessora all’ambiente in seguito a un avviso di garanzia, poi l’arresto del capo del personale: la giunta capitolina a 5 stelle fa parlare per i suoi problemi e non per l’iniziativa amministrativa. Considerata la situazione della capitale, molte delle difficoltà incontrate dalla nuova amministrazione erano prevedibili; tuttavia colpiscono l’intensità e la durata di una impasse politica e amministrativa con pochi precedenti nella storia recente delle città italiane. Ad esempio, ripercorrendo l’insediamento delle prime giunte leghiste a metà anni ’90, molte città di varie dimensioni (Varese, Milano, Pavia, Treviso) si sono trovate guidate da sindaci che non avevano alcuna significativa esperienza di governo. Eppure, quella «rivoluzione elettorale» non diede vita alle difficoltà di cui si legge in questi mesi.

Si potrebbe dire in modo semplicistico che Virginia Raggi si è rivelata fino ad ora una guida meno abile e fortunata del sindaco pentastellato di Torino, Chiara Appendino, e quindi che si tratti solo di una questione di leadership. La leadership indubbiamente ha un certo peso, ma non possiamo isolarla dal contesto. Questo significa fare riferimento alle dinamiche evolutive di una formazione di così recente origine e soprattutto ai processi di acquisizione della cultura di governo da parte del Movimento 5 Stelle, in particolare in una città così problematica (e ambita) come Roma, dove si gioca una partita dagli evidenti riflessi nazionali. La cultura di governo non si inventa, e a tal riguardo altre amministrazioni pentastellate hanno mostrato la difficoltà di passare dalla protesta alla proposta. A Parma, Federico Pizzarotti ha impiegato non poco a comprendere come prendersi cura della città, con risultati – a detta di molti – non disprezzabili. Ma dopo una fase prolungata di conflitto con il vertice nazionale oggi è fuori dal Movimento. A Livorno, Filippo Nogarin, dopo oltre due anni di governo, non è ancora riuscito a lasciare il segno. Si Roma abbiamo detto. I diversi profili professionali di Appenddino e Raggi (più manageriale il primo, più legal-burocratico il secondo) e la connessa capacità individuale di governo spiegano solo in parte la diversa capacità di gestire la sfida dell’amministrazione. Tuttavia, il problema non è solo la capitale: la difficoltà di trasformare slogan efficaci in scelte adatte al governo di una città è una sfida classica per nuovi soggetti politici che sono chiamati a gestire il proprio successo elettorale. Senza una preparazione al governo non si riesce a creare un governo.

Il Movimento 5 Stelle ha il merito di aver tematizzato questioni in grado di attrarre vaste porzioni di opinione pubblica, anche dal lato progressista: riguardanti, ad esempio, la partecipazione dei cittadini, il reddito di cittadinanza e le questioni dell’ecologia e delle fonti di energia rinnovabile. Tuttavia, a livello locale – a differenza di altri soggetti politici esteri che di recente hanno vinto elezioni municipali di città importanti, come Podemos in Spagna – i pentastellati non sembrano brillare per capacità di fare proposte politiche articolate. Tutta colpa dei cittadini, le cui proposte presenti sulla piattaforma Rousseau sono inadeguate? Tutt’altro: il maggiore coinvolgimento dei cittadini – seppur con modalità discutibili – è un elemento di novità del Movimento da guardare con molto favore. Si tratta di un percorso da valorizzare, poiché comporta una concezione della partecipazione che non si esaurisce nel momento elettorale. Il problema risiede piuttosto nella scelta fatta finora dal movimento di non trasformarsi in partito, ossia riguarda il delicato momento in cui una neoformazione politica deve adottare una cultura partitica di governo che si sostanzia nella costruzione di una classe dirigente nuova e competente e nell’aggregazione strutturata della domanda politica emergente. Concorrendo alle elezioni e quindi accettando i fondamenti della democrazia rappresentativa, il Movimento non può continuare a far finta che una competente dirigenza «partitica» non sia necessaria. Le primarie come strumento di selezione del personale politico costituiscono già una sfida per i partiti strutturati; nel caso di una neoformazione quale il M5S possono innescare dinamiche distruttive.

D’innanzi ai recenti accadimenti romani sarà molto interessante analizzare come il Movimento stesso deciderà di rispondere, in particolare per quanto riguarda la selezione del proprio personale politico, se manterrà gli strumenti finora utilizzati oppure se deciderà di introdurre alcune modifiche. Inoltre, sarà importante seguire come si combineranno le modalità di partecipazione on-line e off-line del Movimento, al fine di aggregare in modo efficace e realmente partecipativo la domanda politica. Servono luoghi di discussione e di confronto, dove è bene che il dissenso emerga e non venga bollato come boicottaggio e sanzionato con l’espulsione dei dissidenti come è già avvenuto in alcuni contesti locali. Gli eventi romani inducono ora il M5S a confrontarsi con queste sfide, ma è bene ricordare che non sono questioni che riguardano solo i pentastellati. Come selezionare la classe dirigente e garantire la sua onestà e la sua competenza è una questione cruciale – e irrisolta – della politica italiana dei nostri anni e, come tale, chiama in causa tutti i partiti.

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