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Vezio De Lucia
Roma moderna?
27 Novembre 2011
Recensioni e segnalazioni
Riflessioni sulla tragedia urbanistica e le sue occasioni perdute, a partire dalla nuova edizione di un grande classico di Italo Insolera, “Roma moderna”. Lo Straniero, n. 138 (dicembre 2011)

Il carisma francese

In forma ampliata e rinnovata è tornato Roma moderna di Italo Insolera, il più importante libro sulla storia urbana della capitale. La prima edizione è del 1962. Le successive edizioni e ristampe sono state quattordici, fino al 2008, ma la struttura del libro non aveva subito sostanziali modifiche: trattava di Roma dalla presa di Porta Pia agli anni più recenti.

Le novità di questa quindicesima edizione sono invece tante, la più importante riguarda l’inizio del racconto, spostato all’indietro, dal 20 settembre 1870 al 27 luglio 1811, data in cui Napoleone I firmò il decreto imperiale per “l’embellissement de Rome”. Insolera scrive nella premessa che la Rivoluzione francese “ha un carisma storico-culturale ben maggiore dei ministri e dei generali della modesta dinastia sabauda, incerta se allearsi con Garibaldi, sicura di avere in Mazzini un nemico”, e perciò è giusto attribuire ai francesi il merito di aver dato inizio a Roma moderna. L’attitudine francese a volare alto si coglie subito considerando i due grandi parchi previsti dal decreto napoleonico: il primo a Sud, da piazza Venezia all’Appia Antica, il secondo a Nord, da piazza del Popolo a ponte Milvio. Il modello, secondo Insolera, sono il bois de Vincennes e il bois de Boulogne che chiudono Parigi a Est e a Ovest. E poi il Tevere navigabile da Perugia al mare, l’ingrandimento e il miglioramento delle piazze del Pantheon e di Traiano, mercati, mattatoi, giardino botanico e altro.

Ma il governo napoleonico durò troppo poco, il 19 gennaio 1814 ritornarono i napoletani seguiti dal papa. Delle opere previste dai francesi si riuscirono a fare pochi restauri al Foro e Luigi Canina mise mano alla trasformazione dell’Appia Antica nella passeggiata archeologica che ammiriamo ancora oggi. Nei decenni successivi, fatti salvi i pochi mesi della repubblica mazziniana (1848-49), Roma tornò a essere una città ferma e spenta. Prima del 1870, si ricordano solo la ferrovia per Ceprano, verso Napoli, e le espansioni edilizie del ministro di Pio IX monsignor de Merode che continuò a operare fino ai primi anni del Regno d’Italia.

Le altre novità della quindicesima edizione di Roma moderna (30 capitoli, 403 pagine, 25 euro) riguardano: una più ricca dotazione di immagini fotografiche e di planimetrie (35 foto aeree e 6 planimetrie della crescente e forsennata espansione edilizia); l’estensione del racconto fino ai nostri giorni (adesso copre quindi due secoli, da Napoleone ad Alemanno); un glossario che comprende alcune voci indubbiamente pertinenti (abusivismo, piano regolatore), altre sorprendenti, come “Banda della Magliana” e “Furbetti del quartierino”, soggetti diversamente malavitosi le cui imprese interferirono con l’urbanistica romana. Infine, il libro è dedicato a quattro sindaci laici di Roma, tutti estranei al Vaticano e alla lobby dei proprietari fondiari: Luigi Pianciani, combattente della Repubblica romana (sindaco dal 1872 - 1874), Ernesto Nathan, nato inglese, ebreo, mazziniano (1907 - 1913), Giulio Carlo Argan, grande studioso e storico dell’arte (1976 - 1979), Luigi Petroselli, viterbese, comunista, il sindaco più amato (1979 - 1981).

A quest’ultima edizione, soprattutto per quanto riguarda le vicende più recenti, ha collaborato l’urbanista Paolo Berdini, che studia e documenta da tempo in libri ed articoli i fatti e soprattutto i misfatti urbanistici della capitale e del resto d’Italia.

L’assassinio politico di Fiorentino Sullo

Il ritorno del libro di Insolera fornisce l’occasione per proporre qualche riflessione sulla condizione urbana a Roma e in Italia nell’ultimo mezzo secolo, per ricordare brandelli di storia, di personaggi e di luoghi, non solo quelli raccontati da Insolera, che sarebbe bello non dimenticare.

Cominciamo dal piano regolatore generale di Roma adottato dal consiglio comunale nel 1962 e approvato dal ministero dei Lavori pubblici nel 1965 (allora non esistevano ancora le regioni a statuto ordinario, che hanno cominciato a funzionare nel 1972, e spettava a quel ministero l’approvazione degli strumenti urbanistici e il coordinamento delle politiche territoriali). Qui entrano in scena i due migliori ministri dei Lavori pubblici dell’Italia repubblicana: il democristiano Fiorentino Sullo e il socialista Giacomo Mancini.

Nel giugno del 1962, scatta l’“operazione Sullo”: il ministro, raccogliendo un appello di Italia Nostra, fa approvare un decreto legge che fissa un termine perentorio per l’adozione del piano regolatore e sospende fino a quella data il rilascio di autorizzazioni a costruire, un atto inedito e coraggioso nella “capitale corrotta” dalla speculazione fondiaria.

Chi è Fiorentino Sullo? È una figura tragica ed emblematica della storia recente del nostro Paese. Nato a Paternopoli (Avellino) il 29 marzo 1921 è morto a Salerno il 3 luglio del 2000. Laureato in giurisprudenza e in lettere. Deputato per 41 anni, dalla I alla XI legislatura. È stato il più giovane deputato all’Assemblea costituente. Uno dei capi storici della Democrazia cristiana, fondatore della corrente di Base. Più volte sottosegretario, ministro dei Trasporti nel governo Tambroni del 1960, si dimise quando quel governo ottenne la fiducia con i voti determinanti del Movimento sociale italiano. Il suo nome resta però legato alla proposta di riforma urbanistica presentata quando era ministro dei Lavori pubblici nel quarto governo Fanfani (1962-1963) e nel successivo governo Leone (1963). Dopo essere stato sconfessato dalla Democrazia cristiana, che non condivideva il suo progetto di riforma urbanistica, fu ancora ministro per la Pubblica istruzione (1968-1969), per la Ricerca scientifica (1972) e per l’Attuazione delle regioni (1972 - 1973), ma lentamente e progressivamente emarginato.

Nel 1963, a determinare la sconfessione di Sullo da parte della Dc era stata la disposizione del suo disegno di legge che, per impedire la formazione di rendite parassitarie, imponeva ai comuni di acquisire, tramite esproprio, le aree fabbricabili, da cedere poi a chi costruisce gli alloggi a un prezzo maggiorato solo delle spese generali e del costo delle opere di urbanizzazione: un principio ripreso dall’esperienza di Paesi all’avanguardia nelle politiche territoriali (Paesi Bassi, Gran Bretagna, Svezia, eccetera). La sua proposta di riforma era nota da tempo. Nel luglio del 1962 la presidenza del Consiglio dei ministri aveva comunicato di condividerne i criteri informatori. Nei mesi successivi Sullo parlò pubblicamente del suo disegno di legge al convegno ideologico della Dc a San Pellegrino, poi a conclusione del dibattito sul bilancio del ministero dei Lavori pubblici e al IX congresso dell’istituto nazionale di Urbanistica, senza suscitare particolari reazioni.

Ma all’avvicinarsi delle elezioni politiche del 28 aprile 1963 esplose “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa – orchestrata da Il Tempo di Roma seguito dal Messaggero, sostenuta dal mondo degli affari e dalla politica di destra – contro il ministro dei Lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. La Dc, terrorizzata, comunicò che il partito si dissociava dall’operato del suo ministro. Fu la damnatio memoriae di Fiorentino Sullo. Egli stesso racconta (nel libro Lo scandalo urbanistico) che “con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi toglier loro davvero la casa”. Non gli fu permesso di spiegare in televisione “la realtà e la fantasia”.

Si consumò così una delle vicende più gravi della nostra storia recente, che ha avuto effetti di lunga durata, ha continuato nei decenni a proiettare un’ombra minacciosa e ha compromesso forse per sempre la possibilità di dotare il nostro paese di una moderna disciplina urbanistica. È stata definita la “sindrome Sullo”. Ancora oggi non mancano politici e amministratori che di fronte a scelte urbanistiche coraggiose si tirano indietro per non fare la fine di Fiorentino Sullo.

Una prima inquietante dimostrazione della forza di chi si opponeva alla riforma fu il tentato colpo di stato da parte del generale dei carabinieri Francesco De Lorenzo e altri, sollecitati da altissimi esponenti delle istituzioni, nell’estate del 1964 al tempo della formazione del secondo governo Moro (1964-1966). Nel dicembre dell’anno prima, nelle dichiarazioni programmatiche alla Camera, in occasione del suo primo governo (1963-1964), Moro dedicò molto spazio alla nuova legislazione sui suoli. Dichiarò, tra l’altro, che tra gli obiettivi da perseguire era compresa: “l’avocazione alla collettività nella misura massima possibile delle plusvalenze comunque determinatesi e la creazione di un meccanismo che eviti la formazione di nuove rendite per il futuro. Il governo ritiene che la strumentazione atta al raggiungimento dei fini della politica economica e sociale che coinvolgano l’utilizzazione del territorio debba trovare il suo fondamento nel regime pubblicistico del mercato della aree fabbricabili”. Moro, quindi, nel programma del suo primo governo aveva sostanzialmente seguito la linea di Sullo. Ma nel programma del suo secondo governo (luglio 1964), la riforma urbanistica è del tutto cancellata. Che era successo? Nella Storia e cronaca del centro-sinistra di Giuseppe Tamburrano si legge che “la nazionalizzazione dell’industria elettrica non suscitò le ostilità degli ambienti economici che incontrò invece la riforma urbanistica”. Lo stesso Tamburrano ricorda quanto scrisse Pietro Nenni nel suo diario a proposito degli interminabili incontri con la Dc nel luglio 1964: “La bomba scoppiò quando Moro disse, col suo solito tono distaccato, che il Presidente della Repubblica non avrebbe mai firmato una legge la quale comportasse l’esproprio generalizzato dei suoli urbani”. Nenni intravide un “balenar di sciabole” e indusse i socialisti a ripiegare.

Il recente volume di Mimmo Frassinelli, Il piano Solo, chiarisce definitivamente che, nell’estate del 1964 il tentativo di colpo di Stato ci fu e fu voluto dal Presidente della Repubblica Antonio Segni, e primi a stargli vicino furono Emilio Colombo, Cesare Merzagora e Guido Carli. Ricorda che negli accordi del luglio 1964 fra le delegazioni democristiana e socialista per la formazione del secondo governo Moro fu inserita una postilla segreta relativa alle ulteriori limitazioni alla riforma urbanistica, sottaciute nel documento ufficiale per evitare la bocciatura della direzione del Psi, dove serpeggiava lo scontento. Giolitti dichiarò infatti conclusa la sua esperienza ministeriale (“Non sono disposto a fare il beccamorto del mio piano né la foglia di fico di un centro-sinistra ormai svuotato di ogni forza politica”).

Un altro avvenimento, ancor più tragico e tenebroso, da ascrivere alla sindrome Sullo, furono le bombe di Milano e Roma del 12 dicembre1969, primo episodio della strategia della tensione che insanguinò l’Italia per quasi vent’anni. Le bombe del dicembre 1969 esplosero a poche settimane dall’imponente sciopero nazionale del 19 novembre per una nuova politica urbanistica. Attenti osservatori videro in essa il tentativo di ostacolare le ipotesi di riforma urbanistica e dell’intervento pubblico in edilizia che erano state imposte dalla forza dei movimenti di protesta operai e sindacali.

L’Appia Antica come l’Acropoli di Atene

Torniamo a Insolera e al piano regolatore di Roma adottato nel 1962. Tre anni dopo, nel dicembre 1965 il piano è definitivamente approvato con decreto del ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini, altro protagonista da non dimenticare dell’urbanistica romana e nazionale. Quello del 1962 - 1965 non è un buon piano regolatore, e i suoi difetti – soprattutto l’ingiustificato dimensionamento delle previsioni – si sono moltiplicati con il passare degli anni, il susseguirsi di varianti, il ricorso ad ambigui piani particolareggiati, l’astuto lavorio di uffici e di portatori di interessi illegittimi. Ma di quel piano restano pure alcuni straordinari risultati in materia di miglioramento della qualità della vita, a partire dalla previsione di un vasto e diffuso sistema di verde pubblico formato da giardini storici (villa Ada, villa Chigi, villa Doria Pamphili) e da parti pregiate dell’agro romano (Castel Fusano, Castel Porziano, Veio, Valle dell’Aniene, Appia Antica).

La rigorosa tutela dell’Appia Antica e la sua destinazione a parco pubblico credo che sia una delle più belle pagine dell’urbanistica contemporanea. Nel decreto di approvazione del piano regolatore fu stabilito che, riguardando la tutela dell’Appia Antica “interessi preminenti dello Stato”, l’intero comprensorio da Porta San Sebastiano ai confini del Comune andava destinato a parco pubblico. Con il medesimo decreto furono eliminate le preesistenti previsioni edificatorie che consentivano la realizzazione di abitazioni di pregio per decine di migliaia di abitanti intorno all’Appia Antica. Mancini ignorò evidentemente le pressioni degli interessi colpiti – che facevano capo al Vaticano e al mondo dell’aristocrazia e della finanza – e, come aveva fatto Fiorentino Sullo, raccolse invece gli appelli di Italia Nostra, di scrittori e intellettuali.

Nato a Cosenza nel 1913, Giacomo Mancini è morto nella stessa città nel 2002. Avvocato, antifascista, deputato socialista per dieci legislature (1948 - 1992), ministro per i Lavori pubblici nel secondo e terzo governo Moro (1964 - 1968) e nel primo e secondo governo Rumor (1969). Fu segretario del Psi dal 1070 al 1976, prima di Bettino Craxi. Due volte sindaco di Cosenza (1985 - 1986 e 1993 - 2002). Di lui continua a prevalere un’immagine determinata dalla vasta ramificazione clientelare che sviluppò nella sua Calabria, ai danni del ruolo decisivo che svolse per il rinnovamento dell’urbanistica italiana negli anni del primo centro sinistra: dall’inchiesta su Agrigento alla cosiddetta legge-ponte (l’unica piccola riforma urbanistica approvata nell’Italia del dopoguerra), dagli standard urbanistici all’insediamento della commissione presieduta da Giulio De Marchi sulla difesa del suolo (remota capostipite della legge finalmente approvata nel 1989).

Nella difesa dell’Appia Antica Mancini era stato sensibile in particolare all’indignazione che Antonio Cederna (1921 - 1996), giornalista, scrittore, fondatore della moderna cultura ambientalista, esprimeva nei suoi articoli sul “Mondo”. Il suo primo articolo in difesa della regina viarum lo aveva scritto nel 1953. Un articolo celeberrimo, I gangster dell’Appia, al quale hanno fatto seguito almeno altri cento articoli, sullo stesso settimanale, sul Corriere della Sera, la Repubblica, “L’Espresso”. I gangster dell’Appia erano nobiluomini, nuovi ricchi, speculatori che stavano disseminando l’Appia Antica di residenze esclusive, costellando nuovi muri e recinzioni di antichi marmi rapinati alle tombe e alle rovine lasciate come denti cariati tra villa e villa. Invece, secondo Cederna,

«per tutta la sua lunghezza per un chilometro e più da una parte e dall’altra, la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti. [...] Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene.»

Dal 1965 l’Appia Antica dovrebbe essere salva. Certamente non è stata massacrata com’era previsto prima del decreto Mancini, anche se le norme di legge e i vincoli di tutela continuano a essere violati a opera di piccoli e grandi costruttori abusivi in combutta con poteri pubblici inaffidabili e corrotti. Un recente studio della soprintendenza archeologica ha accertato che quasi la metà degli edifici esistenti nel comprensorio dell’Appia Antica (pari a un milione e trecentomila metri cubi) sono stati costruiti abusivamente.

Ma anche se punteggiata da abusi e usi impropri, l’Appia Antica resta l’unica pausa – un grande settore di verde e di archeologia dai Castelli Romani al Campidoglio – che interrompe la sterminata conurbazione romana. Insomma, la cultura della tutela non è stata sconfitta. Insolera ricorda alcuni recenti, importanti risultati: in occasione del Giubileo del 2000, l’interramento del Grande raccordo anulare che dal 1951 tagliava in due l’Appia Antica; nel 1985 l’esproprio, e poi il restauro e l’apertura al pubblico, della villa dei Quintili, uno dei complessi archeologici più importanti di Roma. E dal 2008, al IV miglio dell’Appia Antica, in località Capo di Bove, in una villa espropriata dalla soprintendenza archeologica ha sede un centro di documentazione che conserva anche l’archivio di Antonio Cederna ceduto dalla famiglia allo Stato: un sublime luogo di studio e di meditazione, che per tanti versi assume il senso di un’alternativa alla rovina urbanistica e civile della capitale. Scrive Insolera: “la via Appia Antica potrà diventare la «colonna vertebrale» di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di «Roma moderna», per i cittadini di questa città e di questa regione, per i turisti, per gli amanti dell’arte e della natura e per gli studiosi di tutto il mondo la vera «Roma futura»”.

La breve vita del progetto Fori

La stessa idea della storia collocata nel cuore della città anima il progetto Fori che doveva rappresentare il vertice «intra moenia» dell’Appia Antica. Ma se l’Appia Antica, nonostante tutto, è una realtà, il progetto Fori è viceversa la grande occasione perduta dell’urbanistica romana.

Era stato elaborato alla fine degli anni Settanta dal soprintendente Adriano La Regina riprendendo un’idea di Leonardo Benevolo. Prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori Imperiali, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. Allora, Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana.

Il progetto per il ripristino dei Fori e dell’area archeologica centrale fu sostenuto con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti da Luigi Petroselli appena eletto sindaco nel 1979. Anzi, “il grigio funzionario di partito” venuto da Viterbo, “che sembrava un edile”, diventò, insieme ad Antonio Cederna, il protagonista del progetto Fori. Raccolse vasti e qualificati consensi fra gli studiosi e gli urbanisti in Italia e all’estero. Ma favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Con determinazione e rapidità inusitate, Petroselli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto eliminando la via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e congiungendo il Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò allora la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. È forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea.

Ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 Luigi Petroselli morì improvvisamente. Con lui morì il progetto Fori che, a mano a mano, è uscito dal novero delle cose possibili. La chiusura definitiva della strada alle automobili è stata continuamente rinviata. Eppure non è vero che l’eliminazione della via dei Fori determinerebbe insostenibili problemi di traffico. È vero il contrario. La chiusura, a Napoli, di piazza del Plebiscito – esperienza che fu pensata assumendo a modello proprio il progetto Fori – dimostra che risoluti interventi di pedonalizzazione riducono nettamente il traffico cittadino.

Che ne è oggi del progetto Fori? Dell’idea di rinnovare Roma attraverso l’archeologia non resta nulla. La pietra tombale è stata posta nel 2001 con un decreto di vincolo che ha reso intangibile la via dei Fori Imperiali. L’immagine di Roma formalmente consegnata al futuro è perciò quella degli anni Trenta, quella di Benito Mussolini, senza che ciò abbia determinato proteste da parte di esponenti della cultura democratica. Va aggiunto che il progetto Fori non è mai stato ufficialmente archiviato. Anzi, continua a essere evocato, intendendo però con lo stesso nome cose lontanissime dall’impostazione originaria. Come l’attraversamento della via dei Fori con passerelle pedonali che non disturbino il traffico automobilistico.

Quando morì Luigi Petroselli, Cederna fu il primo a capire che con lui era morto anche il progetto Fori, e scrisse su “Rinascita” dello “scandalo Petroselli”. Lo scandalo di un sindaco comunista che voleva mettere la storia e la cultura al posto dell'asfalto e delle automobili.

“Pianificar facendo”

Il piano regolatore 1962 - 65 è restato in funzione per 43 anni, fino al 2008 (sindaco Walter Veltroni), quando è stato finalmente approvato il nuovo piano, al quale si era messo mano nel 1993 (sindaco Francesco Rutelli).

Il mondo dell’urbanistica, e non solo dell’urbanistica, è profondamente cambiato. Dall’inizio degli anni Ottanta, ha avuto inizio una radicale mutazione del pensiero politico determinata dal neo-liberismo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan che ha attraversato la Manica e l’Atlantico ed è dilagato in Europa. In Italia si afferma, variamente configurato o camuffato, anche nella cultura e nella prassi di gran parte della sinistra. Tutto ciò contribuisce ad alimentare l’insofferenza per la pianificazione, agevolando l’abusivismo e la sempre più ampia diffusione di norme che autorizzano a costruire in deroga alle regole urbanistiche. La deroga diventa la regola. La tolleranza per l’abusivismo contribuisce ad allontanare l’Italia dall’Europa. In 18 anni si susseguono tre provvedimenti di condono, uno ogni 9 anni: 1985 (governo Craxi, ministro Franco Nicolazzi); 1994 (1° governo Berlusconi, ministro Roberto Radice); 2003 (2° governo Berlusconi, ministri Pietro Lunardi e Giulio Tremonti). Siamo al 2012, sono passati 9 anni dall’ultimo condono e si sentono i primi annunci della nuova catastrofe.

Nel 2005, alla fine del secondo governo Berlusconi, la Camera dei deputati ha approvato (con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra) il cosiddetto disegno di legge Lupi, dal nome del deputato di Forza Italia Maurizio Lupi, che intendeva rendere obbligatoria la preventiva intesa con la proprietà per qualsivoglia trasformazione urbanistica. La formula utilizzata era che gli atti definiti “autoritativi” dovevano essere sostituiti da atti “negoziali”. Siamo esattamente agli antipodi della proposta Sullo, alla cancellazione premeditata del governo pubblico del territorio sostituito dalla privatizzazione delle scelte urbanistiche. Per fortuna, l’anticipata conclusione della XIV legislatura non consentì l’approvazione della legge anche da parte del Senato. Poi si capì che la controriforma non ha bisogno di sistemazioni generali, è meglio l’invenzione di provvedimenti che volta per volta assecondano al meglio gli umori e gli interessi emergenti.

La scena è dominata dalla figura di Silvio Berlusconi. Nel dopoguerra nessun uomo politico importante – da De Gasperi a Togliatti, La Malfa, Fanfani, Berlinguer, Andreotti, Craxi, Prodi, D’Alema – si è interessato seriamente alle questioni del territorio. Abbiamo visto che Aldo Moro propose la riforma urbanistica nel 1964 ma fu costretto a fare subito marcia indietro per evitare un colpo di stato. L’eccezione è Berlusconi. “Padroni in casa nostra”, la sua micidiale parola d’ordine, ha fatto più danni alle città e al paesaggio italiani dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ha firmato, finora (novembre 2011), due condoni edilizi, quello del 1994 e quello del 2003. Ha inventato il famigerato “piano casa” che nasce nel marzo del 2009 solleticando gli egoismi più profondi e popolari, radicati in tanta parte del nostro Paese (uno degli ultimi capitoli di Roma moderna è titolato: “Il nuovo millennio: dal «piano urbanistico» al «piano casa»). Doveva essere un decreto legge per consentire di ampliare fino al 30 per cento con semplici autodichiarazioni villette e piccole costruzioni:in sostanza, una specie di condono preventivo e generalizzato. Ma il decreto legge non fu approvato e fu sostituito da un’intesa con le Regioni che si impegnarono a produrre apposite leggi regionali. Si è aperta così una gara devastante (probabilmente vinta da Lazio e Campania) a chi fa peggio: aumento della cubatura fino al 50 per cento, trasformazione a fini residenziali anche di impianti industriali dovunque siano collocati.

La controriforma urbanistica si è affermata e consolidata in particolare a Roma e Milano. Se il primato dell’urbanistica contrattata (anche in termini temporali) spetta a Milano, che ha sostituito al piano la somma dei progetti (oggi Giuliano Pisapia sta cercando di correre ai ripari), Roma ha aggiunto al modello ambrosiano un ipocrita paravento non perdendo occasione per affermare la priorità della pianificazione tradizionale. Ipocrisia perfettamente definita dal motto “pianificar facendo” che contrassegna l’urbanistica capitolina da Rutelli a Veltroni ad Alemanno. La prima conseguenza di questa linea sono i nuovi istituti della compensazione e della perequazione, e la trasformazione delle previsioni urbanistiche in diritti incancellabili.

Il caso Tormarancia è un esempio eloquente delle novità. Si tratta di una grande tenuta di 220 ettari, miracolosamente sopravvissuta fra l’Appia Antica e l’Ardeatina, che secondo il piano regolatore 1962 - 65 doveva diventare un quartiere residenziale di due milioni di metri cubi (circa 20 mila abitanti). Ma il soprintendente archeologico Adriano La Regina vi appose un vincolo d’inedificabilità. Per non mettere in discussione i presunti diritti edificatori, il comune, invece di confermare l’uso agricolo, destinò l’area a verde pubblico spostando il peso insediativo in un’altra parte del territorio comunale, con la conseguenza che, per compensare i nuovi proprietari e per tener conto del diverso valore dei suoli, il peso insediativo passava da 2 a 5,2 milioni di metri cubi.

Accanto agli istituti della new wave urbanistica continua imperterrito l’abusivismo, vorace contrassegno dell’urbanistica romana, e primo fattore della dissipazione del territorio. Qui ricordiamo solo il numero spropositato di domande del condono 2003, oltre 85 mila, quasi la metà del totale nazionale, relative agli anni dal 1994 al 2003 quando in Campidoglio sedevano prima Francesco Rutelli, poi Walter Veltroni.

La conseguenza di vecchi e nuovi costumi edilizi è un’espansione senza fine. Il piano regolatore prevede una crescita di oltre il 30 per cento dell’attuale superficie urbanizzata, mentre la Germania e altri Paesi europei praticano severe politiche di contenimento delle nuove urbanizzazioni.

Sulla facciata del palazzo che ospita gli uffici dell’urbanistica capitolina è scolpita la frase di Mussolini che sintetizza il suo pensiero urbanistico: “La terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno”. Insolera commenta che forse delle tante profezie mussoliniane è l’unica che si è realizzata.

L’orchestra di piazza Vittorio

Il racconto di duecento anni di urbanistica romana dovrebbe indurre alla disperazione, la conclusione dovrebbe essere che i portatori degli interessi fondiari e speculativi hanno ormai vinto. Che le intimidazioni e le ormai remote trame eversive fomentate dalla sindrome Sullo degli anni Sessanta hanno raggiunto il proprio scopo.

Ma Italo Insolera non si arrende. Nella premessa scrive che “l’ignoranza è stata diligentemente perseguita dalla classe dirigente romana che in duecento anni ha dimostrato la propria fede incrollabile ed esclusiva nel profitto. Bisogna uscire dall’ignoranza se vogliamo che Roma sia nel futuro frutto di civiltà”. E il suo contributo all’ottimismo lo mette in pratica puntando sulla cultura e proponendo per Roma moderna una prima conclusione riferita all’Appia Antica intesa come “un auspicio per un futuro migliore”. Ma a questa aggiunge una seconda sorprendente conclusione: “Roma multietnica”. Si intitola così l’ultimo capitolo del libro che racconta della recente immigrazione. La capitale in effetti è sempre stata multietnica, da Adriano in poi gli imperatori provenivano dalle terre conquistate. Così anche le legioni che formarono nuovi nuclei familiari. E lo stesso è per la Chiesa cattolica, non tanto per i pontefici quanto per la presenza di religiosi provenienti da tutto il mondo.

Oggi a Roma vivono circa 500 mila immigrati regolari (il dieci per cento dei presenti in Italia) e probabilmente 100 mila clandestini, una popolazione come quella di Bologna. Continua a prevalere un atteggiamento di diffusa chiusura rispetto al quale si distinguono le istituzioni cattoliche, a cominciare dalla Caritas (fondata da monsignor Luigi Di Liegro) che dal 1971 opera fattivamente, animata dall’idea di una città più giusta, più umana e accogliente. Insolera racconta drammatici episodi generati dalla negazione dell’accoglienza: nel gennaio del 1991 la brutale espulsione degli immigrati che si erano insediati nel vecchio pastificio della Pantanella, a Porta Maggiore; l’inutile sgombero del cosiddetto hotel Africa, un capannone delle ferrovie di fronte alla stazione Tiburtina occupato da africani di ogni nazionalità, tornato vuoto e abbandonato. Tragica la sorte della popolazione Rom “sulla quale si scaricano i pregiudizi e il latente razzismo della popolazione romana” e per la quale “l’unica risposta ufficiale sembra limitarsi alla demolizione delle baracche e al loro trasferimento in altro luogo ugualmente desolato. Una spirale senza fine indegna di una città accogliente”. L’ultimo episodio del disumano trattamento cui sono sottoposti i Rom è il rogo che 6 febbraio del 2011 ha bruciato una baracca in un campo abusivo a Tor Fiscale, periferia est, provocando la morte di quattro fratellini fra gli undici e i quattro anni.

Ma nonostante tutto l’integrazione va avanti. Il quartiere di piazza Vittorio è diventato un simbolo della trasformazione: nato dopo il 1870 per ospitare la prima ondata migratoria, soprattutto dal Piemonte, necessaria al funzionamento della nuova capitale, cento anni dopo, invecchiate le case, il loro prezzo è sceso alla portata dei nuovi immigrati, in particolare i cinesi. Insolera osserva che almeno i piemontesi avevano costruito la loro piazza. Piazze ce n’erano in tutti i quartieri dell’espansione della capitale: Risorgimento, Cavour, Mazzini, Indipendenza, Re di Roma, Regina. “Nei quartieri della nuova ondata immigratoria dai paesi poveri non ci sono spazi da «sprecare»: tutto deve essere costruito, diventare rendita immobiliare. Piazze, giardini, parchi e servizi sociali restano un privilegio per i quartieri ricchi”.

Proprio da piazza Vittorio prende nome l’orchestra formata da musicisti abitanti nel quartiere provenienti da ogni parte del mondo: Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, India, Mali, Senegal, Stati Uniti, Tunisia e Ungheria. Un insieme di sensibilità, strumenti e suoni che “getta alle ortiche la difesa di ormai inservibili identità culturali e religiose. Meno male che a Roma c’è l’Orchestra di Piazza Vittorio”, scrive Insolera. E Roma moderna si conclude così: “l’arte e la cultura saranno gli elementi con cui potrà nascere la Roma del futuro”.

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