La porta di accesso è rimasta la stessa ma, all’interno, l’alloggio di 72 mq è ora diviso in due, uno di 34 e l’altro di 35 mq, ognuno con cucina e bagno. Siamo a Monteverde in una palazzina costruita intorno agli anni ’60, quando la zona era ancora periferia e dove Pasolini vi ambientò l’inizio di Ragazzi di Vita. Lui 34 anni e lei 33, entrambi lavoratori precari e con il desiderio di mettere su casa. I genitori di lui sfrattati dalla loro casa in seguito alle cartolarizzazioni: il padre con la pensione sociale e la madre in attesa di riceverla. Un mutuo di durata trentennale che costa 1.100 euro al mese, come un affitto che, se a pagarlo sono due famiglie, sembra essere la soluzione ideale per avere una casa. A Roma torna la coabitazione, torna perché era già consuetudine negli anni ’60, quando le case mancavano. Oggi però le case ci sono: tra il 2001 e il 2005 le abitazioni in più rispetto al numero delle famiglie sono passate da 199 mila a 249 mila. Tornano dunque le coabitazioni per una ragione diversa: l’insostenibile pesantezza del canone di affitto. Una storia come molte altre di frazionamento di un appartamento che fa luce su un vasto fenomeno di contrazione dello spazio fisico domestico. Ma anche una storia emblematica dell’arte di arrangiarsi per assicurarsi il diritto a restare nella città, a non essere espulsi lontano, in provincia.
Il Macao è il quartiere compreso tra la stazione Termini e il Castro Pretorio; costruito dopo l’Unità d’Italia come zona residenziale è composto da villini e da edifici a blocco con alloggi anche di ampie dimensioni. La linea B della metropolitana e la vicinanza con la stazione Termini lo rendono facilmente accessibile. E’ qui che nel 2003 un giovane imprenditore (29 anni) proveniente da una città del Sud compra, da una famiglia, un alloggio di 170 mq. L’idea era di farci un piccolo residence per i turisti e i pellegrini. L’alloggio fu suddiviso in 5 monolocali (4 di 22 mq e 1 di 25 mq) e in un bilocale (56 mq). Ogni monolocale è arredato, non c’è la cucina ma una piastra elettrica e c’è il frigorifero, il letto è sul soppalco. Gli spazi comuni sono ridotti al minimo: il corridoio è dotato di una postazione internet.
La clientela di turisti che si fermavano per pochi giorni (3-7 giorni) venne sostituita ben presto da utenti sempre temporanei ma che restavano per un periodo di tempo più lungo. I contratti sono quelli transitori della durata di tre mesi e i clienti sono dipendenti di società, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, turisti, liberi professionisti, studenti. La domanda in crescita è quella dei lavoratori autonomi in trasferta, dei piccoli imprenditori e dirigenti di società. Al momento dell’indagine risultavano occupati tre monolocali su cinque, rispettivamente da: un ristoratore che risiede fuori Roma e che usa il monolocale soprattutto nei fine settimana; da una coppia di giovani, lui studente e lei lavoratrice di origine irlandese; da una signora russa, una cliente fissa che ogni due-tre mesi occupa il monolocale per circa un mese. I costi di gestione sono ridotti al minimo, un factotum di origine rumena è a disposizione degli inquilini. Il canone di ogni monolocale è di 900 euro al mese a cui si aggiungono le spese per internet, riscaldamento, ecc… circa 60-80 euro: in totale si arriva a poco meno di 1.000 euro al mese.
Quattro trentenni, laureati, tre ragazzi e una ragazza. In quattro si suddividono un quadrilocale di circa 120 mq nella zona a Sud Ovest di Roma. Un profilo caratterizzato da flessibilità lavorativa, dalla disponibilità alla mobilità (alcuni di loro hanno cambiato già più volte città e lavoro), e da un’alta qualificazione. Uno di loro lavora per una multinazionale di cosmetici. Non si conoscevano prima di coabitare. Niente contratto, ognuno paga la sua quota di affitto, 350 euro a camera, direttamente e in contanti al proprietario e risponde solo per se stesso. L’incidenza del canone di affitto sui redditi varia da circa il 15% del reddito più alto a circa il 30% di quello più basso. In totale, il proprietario percepisce un canone di 1.400 euro al mese. L’organizzazione della convivenza prevede l’assunzione delle spese comuni (la signora delle pulizie quattro ore a settimana) che ammontano a circa 400 euro al mese, ma anche la ricerca di una maggiore integrazione: ad esempio, il rito di fare la spesa e di svolgere la cena insieme, quando è possibile.
Ricerca di integrazione che si proietta anche alla scala più ampia, quella della città e che incrocia il desiderio di vivere, di partecipare, di essere nella città. Non solo quindi coabitazione di necessità.
Le storie riportate costituiscono solo una parte di una indagine svolta presso il Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre dal titolo “Itinerari dell’abitare a Roma”. Il quadro che emerge lungo questi itinerari è che nel corpo della città si stanno affermando forme che testimoniano del mutamento sostanziale cui è soggetto il sentimento dell’abitare. Mutamenti che hanno a che fare con il bisogno (la necessità) di “condividere” i costi per renderli sostenibili e quindi con la costruzione di forme di associazione; con la crescente mobilità delle persone e quindi con la temporaneità e, infine, con la riduzione dello spazio domestico.
Nuove forme di associazione. L’abitare si accompagna a forme di associazione con altri individui. Abitare, affermare il diritto alla città, vuol dire incontrare gli altri, condividere con loro non solo lo spazio, ma allargare questa condivisione alla possibilità di costruire una rete sociale che allontani il rischio della solitudine e della perdita di senso dell’abitare. In alcuni casi lo stare insieme si limita ai valori di buon vicinato, ma frequenti sono i casi nei quali questo “essere con” nasce e allo stesso tempo coltiva valori che combinano la dimensione individuale e la costruzione di piccole e concettualmente non molto elaborate forme di comunità. L’incontro, in qualche misura artificiale, porta alla costruzione intenzionale di un rapporto con gli altri che comporta anche l’attivazione di forme di coinvolgimento emotivo di identificazione e di condivisione di un comune fine morale.
La temporaneità. La crescente mobilità delle persone cambia il sentimento dell’abitare, intanto per il fattore tempo (la durata) ma ancora di più per la “voglia” di abitare. Le città sono attraversate da flussi di individui che hanno intrapreso un viaggio alla ricerca di nuovi stimoli, di nuovi e differenti modi di vita. Sono i nomadi urbani ai quali le città dovranno costruire nuovi porti per trasformare in opportunità il loro perdersi. Non si tratta dei turisti con i loro riti di massa ma ci riferiamo alla popolazione dei fluttuanti, alcuni per necessità molti per scelta, tutti comunque alla ricerca di una possibile svolta nella loro esistenza. Rappresentano un capitale di energia e di innovazione vitale per le città. Sono espressione di quella mobilitazione universale nella quale sembra destinata ad evolversi ormai la condizione del cittadino.
Questa popolazione esprime valori differenti come, ad esempio, l’uso del bene casa e non più la sua proprietà.
All’abitare temporaneo si accompagna anche la costruzione (immateriale) del sentimento dell’abitare. E’ la ricerca di una familiarità. Alla città spetta il compito di costruire i luoghi per la formazione di questo sentimento. Il carattere nomade con cui abitiamo la contemporaneità della città ci precipita in una condizione di disagio per l’assenza di quelle forme connaturate all’abitare e che sono normalmente esperite nel luogo in cui si nasce e si vive. Da questa assenza, percepita in un altrove, nasce il desiderio, la voglia che ci porta ad una ricerca ostinata dell’abitare.
I luoghi per abitare sono allora identificati con quelli dove si può consumare la città, riconoscerne e viverne le diverse identità. La vita è nella città, è per la strada: si vuole mantenere la vicinanza con i luoghi della scoperta e delle possibilità. Il rapporto dell’abitante con la città cambia, diventa un rapporto del tipo consumatore-città. La città diviene erogatrice di beni (servizi) da consumare: non la curo, la uso e mi aspetto che sia efficiente, vivibile e facile da usare.
Riduzione dello spazio domestico. Per affermare il diritto alla città e per mantenere la prossimità con i luoghi centrali si riduce lo spazio domestico. Negli aspetti più materiali queste forme dell’abitare attivano processi di coabitazione, di partizione e di parcellizzazione dell’immobile. E’ così che la città è attraversata da un processo di espansione che riguarda il capitale fisico esistente. La città sembra così destinata a vivere una fase di contrazione. Con essa si è soliti indicare fenomeni di riduzione, di ridimensionamento, ma la contrazione è invece una dinamica che comporta sempre un plus, un di più. La contrazione non è in opposizione alla crescita è solo una stagione diversa nell’evoluzione della città e rappresenta una nuova chance.
Nella comprensione di questi mutamenti e di questi nuovi caratteri, Roma si gioca la sua scommessa di futuro. Le città non sono fatte solo di case ciò nonostante la disattenzione sull’abitare, l’assenza di un pensiero e di una strategia su questo aspetto, oggi può risultare fatale per la stessa possibilità di tenere insieme la città, di assicurargli coesione sociale e prospettiva di sviluppo economico reale e diffuso. A Roma, purtroppo, i dati e la realtà testimoniano di questo rischio.
Nel primo semestre del 2005, nel Lazio, sono stati eseguiti 1.753 sfratti (+4,7% rispetto allo stesso periodo del 2004); di questi, 1.523 riguardano il comune di Roma, con un incremento del 7,9%. Tra le motivazioni, gli sfratti per morosità rappresentano il 60%. A Roma, dove il mercato immobiliare si colloca ai vertici per intensità di crescita, l’effetto di schiacciamento verso il basso delle fasce sociali cosiddette medie ha una incidenza più alta di quanto avviene a livello nazionale. Nel 2004 per una famiglia del centro di Roma con un reddito pari a 30 mila €/anno l’incidenza del rapporto canone/reddito era il 70%, il 46% per una famiglia che vive in semiperiferia e il 37% per una che vive in periferia. Per un reddito di 15 mila €/anno (il caso ad esempio di una famiglia monoreddito, o di giovani con lavori precari,…) l’incidenza diventa proibitiva anche per sostenere l’affitto di un’abitazione, fosse anche in estrema periferia.
Negli ultimi anni il tasso medio annuo che misura l’incremento delle nuove abitazioni a Roma è stato dell’1,4%, a Milano dello 0,7%, a Torino dello 0,6%, a Napoli dell’1% e a Palermo dello 0,5%. Cresce il numero delle case e cresce il disagio abitativo. Un paradosso? Questi dati confermano i timori di quanti avvertivano che la crescita, anche consistente, delle nuove costruzioni non avrebbe contribuito a ridurre il disagio abitativo (su questo si veda l’articolo sul mensile di Carta del maggio scorso).
L’Agenzia del territorio ha pubblicato il grafico “la piramide dei valori immobiliari” di Roma e della provincia dal quale risulta che i valori degli immobili nelle aree del centro storico sono 8 volte quelle del comune della provincia che ha i prezzi più bassi (Rocca Canterano) e sono 5 volte più alti di quelli delle zone periferiche prossime al grande raccordo anulare. La piramide ha in realtà la forma di una colonna con un fusto stretto e ben slanciato, coincidente con le aree del centro storico, e con una base molto ampia coincidente con i quartieri dentro e fuori dal grande raccordo. Una rappresentazione che chiarisce come a poter salire sul fusto della colonna è ormai solo una elitè di ultra milionari. Si tratta di un mercato offerto agli scambi economici alla scala globale e dal quale i residenti sono per lo più esclusi, quando non espulsi.
Il diritto alla città è uno di quei diritti non negoziabili, ma oggi a Roma questo è un diritto negato a molti. Per riaffermare il diritto alla città è necessario sperimentare politiche abitative coraggiose ed innovative. In altre parole, costruita la città degli eventi, occorre ridefinire la città dell’abitare con l’obiettivo di aumentare la coesione sociale e di contribuire all’economia reale della città.
E’ questa la sfida per la città di Roma.
(La ricerca “Itinerari dell’abitare a Roma” è stata condotta da: Sandra Annunziata, Walter Barberis, Alessandro Calabrò, Alessandro Coppola, Claudia Gatti, Clara Musacchio, Sofia Sebastianelli; il coordinamento della ricerca è di Giovanni Caudo)