«Beni immobiliari indisponibili. Il collegio del Lazio rigetta l’accusa di danno erariale formulata contro le associazioni e adottata dal Campidoglio. Le organizzazioni sfrattate dagli immobili capitolini potrebbero fare causa al Comune». il manifesto, 19 aprile 2017 (c.m.c.)
Gli spazi sociali romani sotto sfratto hanno vinto una battaglia fondamentale, forse decisiva, nella guerra dei Commons: il presidente della Corte dei Conti del Lazio ha detto no. Con le sentenze depositate ieri riguardanti due dei 20 casi attualmente pendenti sui 230 complessivi, quelli delle associazioni «Agorà 80» e «Anche tu insieme», il collegio giudicante per la Regione Lazio ha detto no al procuratore Guido Patti, colui che ha montato un castello accusatorio pesantissimo contro i dirigenti capitolini che hanno gestito in passato il patrimonio non disponibile del Comune di Roma in concessione per usi sociali e culturali.
Ha detto che il danno erariale semplicemente non c’è, non sussiste, sfilando la pietra angolare di tutto il castello, in quanto la tesi del procuratore contabile è che quelle concessioni, in parte scadute, in parte mai del tutto regolarizzate, o che comunque presentano dei vizi formali, avrebbero dovuto pagare un canone di mercato per l’intero periodo di usufrutto.
Hanno vinto i dirigenti e gli avvocati, tra cui i bravissimi Pino Lo Mastro e Stefano Rossi, ma anche diverse avvocatesse giovani e agguerrite, che il 6 aprile scorso avevano sostenuto 8 ore di dibattimento, duettando fino allo sfinimento con un Patti glaciale, inflessibile, che aveva manifestato gli unici segni di emotività rivolgendo battute verso il pubblico delle associazioni presenti in aula: «Vi siete portati la claque». Ricambiato da una risata fragorosa di tutta l’aula quando, excusatio non petita, aveva affermato di non avere intenti persecutori verso le associazioni.
Hanno vinto le associazioni, che possono essere più fiduciose nel fatto che le richieste di risarcimenti milionari a loro rivolte da parte del Comune non abbiano alcuna conseguenza. E anzi, rischiano di mettere in una posizione legale molto scomoda l’amministrazione capitolina. Se infatti le sentenze saranno confermate in appello e se faranno giurisprudenza, come è assai probabile, visto il peso della giudice che l’ha emessa, la presidente Piera Maggi, e visto che i due casi giudicati coprono un po’ tutte le fattispecie, il Comune si troverà con centinaia di intimazioni emesse verso le associazioni prive di ogni base legale. Con il rischio di trovarsi presto a parti invertite, inseguito da centinaia di cause civili intentate dalle associazioni contro il Campidoglio per la definizione del giusto canone e per richieste di risarcimenti in ragione di provvedimenti infondati e vessatori, soprattutto da parte di chi, per la minaccia subita, ha già lasciato gli spazi.
Sono già tre le associazioni che stanno avviando cause civili per la definizione del giusto canone, tra cui la «Mario Mieli», che quasi certamente vinceranno così che il Comune dovrà cominciare a perdere soldi in spese legali. Ma sono ben più ingenti i danni attuali e potenziali che sta già scontando la collettività per le azioni amministrative ispirate dagli insensati criteri della procura contabile, e assecondate altrettanto scriteriatamente dal Comune, dirigenza e giunta messi insieme. Se ne può avere un’idea prendendo il caso del Sant’Egidio, che ha lasciato i locali di Nuova Ostia in cui operava a causa delle diffide al rilascio del Comune con richiesta di risarcimento parametrato sul canone di mercato. In quel caso i danni sono 4 in uno. La perdita di un presidio di legalità e welfare in un quartiere con enormi fragilità sociali; le mancate entrate del canone di concessione, seppur non altissimo; i danni legati al degrado in cui sta rapidamente cadendo lo spazio che naturalmente è già stato occupato da “senza tetto”, e infine il rischio di una causa da parte di Sant’Egidio per tutta questa vicenda.
Nelle sentenze, si motiva l’annullamento del danno erariale sostenendo, come già spiegato dal manifesto, che l’irregolarità formale della concessione non può essere parametrato sul valore di mercato semplicemente perché si tratta di patrimonio classificato come indisponibile, e cioè vincolato a usi sociali e istituzionali, e perciò non poteva in ogni caso essere messo a reddito, neanche se le associazioni senza titolo fossero state sfrattate dai dirigenti, come avrebbe voluto Patti, non a caso accusato dalla rete di organizzazioni (oltre 50) di «abuso della funzione inquirente», nell’esposto presentato alla Corte dei Conti.
Ora le associazioni attendono che il Comune non solo revochi in autotutela tutte le diffide, ma che provveda rapidamente a verificare il valore sociale delle attività svolte negli spazi in concessione. E, contestualmente alla restituzione agli usi collettivi degli spazi inutilizzati o affidati ad associazioni inesistenti, immediatamente regolarizzi, con tante scuse, tutte le associazioni. E senza bando, come è nelle sue prerogative. Checché ne dica Patti.