La Magliana è un luogo di Roma singolare. Di abbastanza recente formazione urbana (più o meno una palude fino al 1960) è diventata il terreno in cui si sono accumulati nel tempo tentativi, plurali e dissimili tra loro, di costruzione di un forte immaginario. Prima come luogo di forte radicamento e protagonismo sociale, capace di sconfiggere la forza di chi aveva autorizzato e costruito case sotto il livello del fiume. Un luogo che una volta che queste case, strappate alla rendita, venivano in massa occupate e fatte proprie da chi quella lotta aveva condotto, si è voluto subito quale “ghetto” per antonomasia. Una location metropolitana. Per ogni delitto sempre più efferato e la messa in scena di mostri urbani descritti nelle cronache cittadine. Dal “canaro”, ai protagonisti della banda di quel romanzo criminale che, per oltre vent’anni avrebbe partecipato, come braccio armato, al dispiegarsi di quella ragnatela di episodi locali capaci di intrecciare e renderli oscuri gli avvenimenti più dolorosi della politica del nostro paese.
La storia è sembrata continuare, con un altro capitolo all’alba di qualche giorno fa. Le forze di polizia, al comando addirittura di un generale, (come sottolineano tutte le cronache) sono state impegnate nello sgombero di una scuola occupata da alcuni anni abitata da precari, migranti, sfrattati, giovani. Più o meno “terroristi” per la stampa di proprietà dei costruttori cittadini. In realtà parte di quel mondo che non può varcare la soglia dei 240 mila appartamenti tenuti sfitti a Roma; quel mondo per cui non esiste nessun alloggio popolare perché non se ne costruisce; quel mondo che è costretto a vagare in una città senza case (popolari) e fatta di case che, senza città, sono cresciute quale informe melassa edilizia, una accanto all’altra.
Decidendo di trasformare, mostrando i muscoli, un’emergenza sociale in problema di ordine pubblico, cosa di meglio che la Magliana. Un ghetto che più ghetto non si può. Dove saldare il ricordo di tensioni antiche, costruite su inesistenti paure, con le nuove che si vorrebbero addossare, fino a farli diventare portatori, ai movimenti di lotta per la casa.
Non era stata “buona la prima”, tuttavia. Non ci si era riusciti, infatti, cacciando chi occupandolo ci viveva, anche qui con un’operazione spettacolare, oltre cinquecento persone dall’ospedale abbandonato Regina Elena perché, non solo si era scoperto che si trattava nella maggior parte di donne e bambini che lì avevano, ottenuta dallo stesso Comune, la loro residenza ufficiale, ma soprattutto perché subito era stato evidente a tutti che la residenza che Alemanno aveva pensato per loro era un lager come manufatto architettonico; un campo di concentramento per come viene gestito; un inferno per chi, lì è, ora, deportato e costretto a vivere e a coabitare.
Non è casuale che tutto questo non sia avvenuto con la città chiusa per ferie, ma si sia aspettato il rientro per varare il primo atto “politico” di Alemanno. Come se si fossero aspettati “i più” per farglielo vedere. Alemanno non ha, con gli sgomberi, sparato ad alzo zero contro i movimenti di lotta per la casa. Ha fatto anche questo certo. Ha inteso prendere realmente possesso della città, dopo un anno di surplace in cui l’aveva assediata. Come tutti i nuovi padroni lo ha fatto ridisegnando le mappe della sua proprietà.
Avendo letto Moby Dick Alemanno sa che le mappe devono mentire sempre, affinché i veri luoghi non vengano mai trovati. Alemanno deve iniziare, cancellando i molti spazi liberati alla rendita, a tenere alta l’emergenza, trasformarla in ordine pubblico. Solo così potrà assicurare, al pacchetto di mischia dei medi e piccoli costruttori che hanno contribuito a costruirlo come Sindaco, di candidarsi a risolvere l’emergenza abitativa da loro stessi provocata. Semplice il loro ragionamento. Le case –per il Sindaco- costano troppo perché a Roma il costo delle aree (nelle mani dei grandi costruttori) fa salire il prezzo finale di vendita sul mercato di oltre il 40% del prezzo di costruzione. Dateci aree agricole e vedrete- dicono al Sindaco i suoi partners di cemento- e faremo case anche per l’affitto. Loro chiamano aree a “saldo” quel vasto territorio chiamato in realtà “agro romano”. In quelle aree, si dicono disposti a realizzare sì case in affitto, ma quale quota edilizia di un pacchetto residenziale assai più consistente. Come hanno sempre fatto: drenando finanziamenti per l’edilizia residenziale pubblica (sovvenzionata e convenzionata) e ritagliandosi i soliti convenienti spazi di manovra con queste nuove case da vendere (molte) e da affittare (poche) quale compenso per il disturbo.
A questo servono le truppe e i generali dislocati sull’argine del Tevere, schierate contro una ciclofficina e una scuola abbandonata fatta diventare casa: alla costruzione dell’immaginario. A dire basta con l’abitazione collettiva, con il luogo dell’abitare eguale, al sottrarsi al mercato e al capestro dell’indebitamento senza fine su cui loro hanno vissuto lucrando e su cui vorrebbero continuare a farlo. Un no esplosivo. Non scritto, ma reso ancora più evidente dalle nubi di polvere sollevate dallo sferragliare dei mezzi e dal battere sugli scudi degli uomini in tenuta antisommossa. Attaccare un luogo occupato, cercando di “finirlo” poi dalle pagine dei giornali compiacenti, vuol dire smontare, mattone dopo mattone, e definitivamente sotterrare nelle sue stesse macerie, l’idea stessa di una città dove pensare all’abitare prima del costruire e ribadire, come evidente, esattamente l’opposto: il costruire sempre e ovunque prima ancora di considerare l’abitare.
Questo dice la nuova cartografia urbana voluta dal sindaco. Per questo la facciata michelangiolesca dei musei capitolini è stata scalata dai movimenti. Ma la resistenza, l’occupazione del tetto affacciato sulla piazza del Campidoglio, il possedere la città dall’alto del desiderio, ha fatto esplodere, anche, la solitudine dei movimenti di lotta per la casa. In un attimo tutto è sembrato disperdersi.
Eppure era quella la strada giusta, nessuno deve sentirsi solo nel difendere e rivendicare i propri diritti. Non possiamo pensare di costruire spazi di conflitto, che siano separati e disposti secondo graduatorie di merito, la lotta per la casa non può essere vincente se non si lega a quella per una mobilità sostenibile, o a quella per la difesa delle aree agricole, all’abitare.
La mappa di Alemanno ha funzionato: disegnando quei corpi, che vivevano sulla sommità dell’edificio michelangiolesco, all’interno della rete della “marginalità sociale”. Ecco allora circondare Marc’Aurelio con il lunapark: dal carro attrezzi, ai vigili che contavano i turni degli scalatori, al pallone anticadute, alla richiesta di staccare o, almeno ridurre, qualche manifesto; a volte turisti e sposi avessero mai alzato gli occhi al cielo…
Il tetto dei musei capitolini era diventato un altro luogo vero; più delle tende montate ai fori. Non un “presidio degli antagonisti”, ma un modo di spendere la propria vita capace di alludere alle tante vite sottratte a chi la casa non ce l’ha. Solo a quelli?
Perché i“climbers for housing” non sono riusciti a trasformarsi in “ climbers for freedom”? A parlare ai tanti ai quali, pur vivendo in una casa, si impedisce di abitare la città. A riuscire a opporsi al fatto che le mappe di Alemanno si trasformino in altrettanti spazi dove non sarà più possibile “pensare” a un altro modo di vivere la nostra vita. Per questo atto dopo atto, vediamo dispiegarsi l’odio che a seconda dei casi, colpisce con contenuti omofobi (e coltelli) la comunità gay; negare il grande square di piazza Vittorio alle celebrazioni della fine del ramadan alla comunità che lì vive, costruire “ teoremi “ su presunti racket all’interno delle occupazioni delle comunità resistenti.
Vogliono farci vivere, creando continue emergenze, all’interno di nuove mappe dove, ogni luogo venga annullato all’interno di un territorio destinato a produrre rendita attraverso la rendita. Una “vice vita” costruita sull’appropriazione di quel che è comune a tutti e di cui, proprio la rendita, si impossessa. A partire dalla distruzione delle risorse e attaccando la capacità di relazione che, in ogni bene, caratterizza la propria identità.
Sta ora ai movimenti romani ridisegnare nuove mappe, partendo dalla convinzione che solo costruendo un grande progetto comune, che veda protagonisti tutti nel disegnare una città che non sia più luogo dell’esclusione, sarà possibile sconfiggere la solitudine. Un “insieme” che non sia la sommatoria di esperienze cresciute separatamente, ma la costruzione paziente di una cultura dell’abitare che garantisca non solo un tetto a chi non ce l’ha, ma restituisca a tutti la dignità di abitanti della città. Se al contrario si rafforzeranno comunità identitarie impegnate in singole rivendicazioni, la solitudine e la perdita di ogni diritto saranno inevitabili.