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Luciana Castellina
Ripartiamo dalla politica slow
28 Settembre 2016
Politica
«L’esperienza di Terra Madre aggiorna la lotta al capitalismo con la forza dell’esperienza di milioni di contadini. Un esempio da cui partire per un rinnovamento a sinistra». il manifesto, 28 settembre 2016

Che siamo contro questo sistema capitalistico dissennato ed ingiusto lo ripetiamo da molto tempo. E però da quando l’idea di come dovrebbe e potrebbe essere l’altro mondo possibile si è annebbiata, l’enunciazione ha perduto non poca della sua presa. Questa edizione di Terra Madre appena conclusa a Torino mi sembra importante, al di là del merito della sua specifica tematica, perché non solo ha dato concretezza a quella nostra critica e aspirazione, denunciando con la forza dell’esperienza di milioni di contadini gli effetti nefasti della distruzione della terra e della rapina che subisce per mano dei grandi protagonisti della globalizzazione, ma ha anche indicato i modi attraverso cui è possibile resistere e anche avanzare.

Non voglio descrivere questo evento straordinario perché lo hanno già fatto, e benissimo, nei giorni scorsi su questo giornale, Coscioli, Pagliasotti e Vittone. Mi sono riferita a questi cinque intensi giorni torinesi solo per lo stimolo che io credo offrano a una riflessione politica più generale. Mi spiego.

1) Noiosamente ci ripetiamo da tempo che il modo di far politica è cambiato, ma qualche conclusione pratica stentiamo a trarla. Ecco: Terra Madre rappresenta uno dei modi di un possibile rinnovamento, che consiste nel prendere atto che in questi ultimi decenni molte delle idee che nel passato hanno animato il nostro impegno si sono logorate e occorre adesso fare in modo che tutti riattraversino un’esperienza pratica diretta che faccia capire perché il capitalismo va combattuto. (Non solo la povertà e l’ingiustizia, proprio il sistema).

Informare che ogni anno 84.000 chilometri quadrati di terra fertile vengono sottratti all’alimentazione dalla dissennata cementificazione speculativa, generando obesità per i ricchi e fame per i poveri perché il lavoro contadino è stato a tal punto svilito e sottopagato dalla grande industria agroalimentare da desertificare le campagne e infestare il nostro cibo di veleni, apre un nuovo orizzonte del cambiamento necessario. Così come dar evidenza all’acquisizione da parte della Bayer della Monsanto è la forma più concreta e illuminante per denunciare la crisi della democrazia, visto che questo privato accordo commerciale avrà effetti sulla nostra vita quotidiana ben più pesanti di qualsiasi decisione votata dal Parlamento.

Ma la forza dei discorsi che qui si sono tenuti sta sopratutto nel fatto che non è stato solo ripetuto un astratto discorso sull’ecologia, ma che quel discorso è stato pronunciato da nuovi protagonisti della lotta anticapitalista, i contadini dell’Africa, dell’Asia dell’America latina, ma anche del nostro occidente che li ha dimenticati. Perché una nuova sostanza della politica può essere trovata solo se non ci si limita a denunciare ma se si riescono a mettere in moto i nuovi agenti del discorso che facciamo, se si individuano nuovi soggetti politici (o, come nel caso dei contadini, se si reinventano). Il salto di qualità qui a Torino si è avuto perché sono state coinvolte 500.000 persone, non privilegiati gourmets, ma cittadini che hanno imparato qualcosa di prezioso: nuovi modi di lavorare e anche nuovi modi di consumare. (È vero che il capitalismo ha trasformato i cittadini in consumatori, ma è anche possibile ritrasformare i consumatori in cittadini attivi). Qui si sono viste all’opera nuove reti militanti.

2) Ci arrabattiamo per scoprire cosa sia oggi il lavoro, ben consapevoli che la disoccupazione giovanile non è uguale al passato, ha anche una evidente causa nel ridursi del lavoro tradizionale, quello industriale e impiegatizio. Ebbene, guai se dovessimo finire per pensare che la sola nuova occupazione possibile sia quella offerta da una inutile, pletorica, patologica moltiplicazione del settore della comunicazione (o del fast food), e non, sopratutto, quella offerta da settori scelleratamente abbandonati e che oggi occorre reinventare: agricoltura e servizi collettivi, che rispondano ai nuovi urgenti bisogni che sono emersi: la indilazionabile cura della terra, dell’aria, delle città divenute invivibili. Non, dunque, un indifferenziato stimolo della domanda, come con un po’ di faciloneria viene invocato da qualche tardo keynesiano, ma un massiccio spostamento di risorse (e di attenzione) dal consumo individuale a quello collettivo.

Possibili e anzi necessari sono oggi mille mestieri che il mercato non crea, perché è tanto miope da vedere solo il profitto immediato e personale, non il vantaggio comune e di lungo periodo. («Non mangeremo computer» – ha ironizzato Carlin Petrini).

Il lavoro politico oggi necessario consiste nell’aiutare questo processo, impegnandosi a costruire i soggetti sociali e politici in grado di portare avanti questi discorsi.

3) Impegnarsi a fare queste cose vuol dire rinunciare al progetto di un nuovo e vero partito della sinistra, un soggetto in grado di coagulare attorno a un progetto energie e intelligenze? Non credo, anzi. Significa però evitare di ripetere quello che è stato un limite dei partiti comunisti e anche socialdemocratici: l’autosufficienza e, insieme, lo statalismo. Capire cioè che un partito è vivo nella misura in cui attorno alla sua organizzazione esistono forme più estese di democrazia organizzata, reti sociali attive, movimenti, che ne garantiscano la linfa e contribuiscano giorno per giorno, nell’immediato e senza delegare, ad un mutamento della società che anticipi i progetti di governi e istituzioni, impotenti se non accompagnati da questa trasformazione.

4) Ultima osservazione. Ho letto che un pezzo di Sel si è riunito in una piazza romana per dire che non è d’accordo con un altro pezzo di Sel perché occorre tornare a perseguire l’obiettivo dell’alleanza di centrosinistra anziché quello di dar vita a un partitino del 2%. Mi sembra una contrapposizione davvero pretestuosa. Quando si dice che oggi reinventarsi quell’alleanza non è più realistico non è perché si ritiene che non si debba più dialogare con i milioni di compagni che per quella formula hanno votato e che continuano a militare nel Pd. Ci mancherebbe! Vuol dire solo che non basta più rimettere insieme pezzi di vecchie organizzazioni di sinistra, neppure di quelle della sinistra c.d. radicale (per questo, del resto, con un atto coraggioso, Sel ha deciso di sciogliersi). Che, insomma, occorre un ripensamento più profondo, un mutamento più innovativo del far politica. Nel senso delle esperienze di cui prima ho parlato (A Terra Madre si è stretto un patto di lotta fra 75 associazioni contadine e ambientaliste, compresa, figuratevi!, la Coldiretti, quella che una volta chiamavamo con disprezzo «bonomiana», per raccogliere le firme sotto una petizione europea che blocchi la distruzione del suolo. Una coalizione ben più larga del centrosinistra!). Insomma: ormai non basta più rimettere assieme i cocci, sommare Bersani con Furfaro o con Fratoianni. È questo obiettivo a essere un po’ meschino e vecchiotto rispetto ai tempi che ci sono imposti.

È un obiettivo facile e immediato? No, ma il concetto di slow vale anche per la politica.

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