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Susanne Böhme Kuby
Riflessioni sul ricordo pubblico dell’Holocaust in Germania
10 Febbraio 2015
Resistenza
Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.
Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.
A cura di Ateneo Veneto e Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea Susanne Böhme Kuby ha tenuto una conferenza dal titolo "Riflessioni sul ricordo pubblico dell’Holocaust in Germania". La conferenza ha illustrato in modo ampio e documentato le premesse storico-politiche del mainstream della percezione pubblica dell'Holocaust in Germania, dall’immediato dopoguerra fino ai più recenti problemi dei risarcimenti alle vittime che si sono riaffacciati dopo la riunificazione nazionale. La contraddittoria memoria del passato nazista - tra rimozione ed eterno ritorno - rivela che quel passato non è né morto, né "superato", ma proietta le sue ombre sull’attualità.Nonostante l'ampiezza del testo, di affascinante e scorrevole lettura, lo pubblichiamo integralmente (in chiaro). Per consentirne una più meditata lettura ne alleghiamo, con il consenso dell'autrice, anche il file in formato .pdf scaricabile da eddyburg

RIFLESSIONI SUL RICORDO PUBBLICO
DELL’HOLOCAUST IN GERMANIA

di Susanne Böhme Kuby

Ho colto l’invito di Marco Borghi a parlare di questo argomento complesso per illustrarvi – ovviamente solo a grandi linee - su quale fondamento poggino il monumento all’Olocausto e i rispettivi musei eretti a Berlino a partire dalla fine dello scorso millennio. Da non pochi visitatori questi luoghi vengono percepiti come testimonianza visibile del fatto (presunto) che la Germania abbia “elaborato” il suo passato meglio di altre nazioni in Europa. Vorrei ripercorrere questa storia dall'inizio, nel tentativo di mostrarne la complessità. Una complessità maggiore di quanto questa conclusione apparentemente positiva, ma in realtà affrettata, non farebbe pensare.

Si può constatare, a 70 anni dalla fine della II.guerra mondiale e dalla scoperta dei suoi orrori, che la memoria del passato non ha – tra rimozione e eterno ritorno – guadagnato in profondità e complessità, ma piuttosto in superficialità e semplificazione. Ciò non soltanto, ma in modo particolare, in Germania (e non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica.) Per comprenderne il motivo occorre indagare le coordinate storico-politiche contingenti, che sono le premesse del mainstream della percezione pubblica nella Germania dei Täter (carnefici). Lascio da parte quindi il ricordo individuale che riaffiora anche in una più recente Erinnerungskultur/cultura della memoria. Mi piace però ricordare la constatazione di Christa Wolf, Trame d’infanzia, del 1976: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato. Noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.

Sappiamo che la memoria dell’Olocausto non è monolitica, ma comprende molte narrazioni a secondo dei contesti e delle prospettive, di vittime e Täter - in Germania, anzi nelle due ex-repubbliche tedesche, in Israele e altrove. Così come ogni memoria è un mosaico costituito da molti elementi a loro volta determinati dal rispettivo presente.

E qui vorrei subito anticipare una constatazione sull’attualità: Il governo tedesco federale ripete da più di mezzo secolo la liturgia di una immensa responsabilità morale della Germania nei confronti delle vittime del Terzo Reich, ma nello stesso tempo insiste sulla non esistenza di alcun obbligo legale nei loro confronti, oltre alle esigue forme di Wiedergutmachung “riparazioni”concesse dopo la guerra. Le vedremo più avanti.

Lo sterminio industriale di massa, di complessivamente ca.15 mio. di esseri umani, tra ebrei, prigionieri russi e polacchi, sinti, rom, e altri, (Holocaust Museum di Washington) eseguito da un vasto apparato costituito da cittadini tedeschi, è stato dall’ inizo rimosso dalla coscienza collettiva della nazione. Questo fatto è stato sempre spiegato con l’immensità dei crimini commessi e con le difficili condizioni del dopoguerra – ma ciò non coglie il nodo del problema. E’ fuor di dubbio che si è trattato di un complesso processo di rimozione collettiva o meglio di diniego, descritto da Ralph Giordano, 1987, così: “Il ‘collettivo nazionale dei seguaci di Hitler’ di ieri si comporta oggi, nella democrazia, in maniera corrispondente alla sua deformazione nazista. Da questo hanno origine gli ‘affetti collettivi’, la ‘seconda colpa’, che nella sua disumanità mostrata in maniera così disarmante ci fa comprendere perché il nazionalsocialismo ha potuto a suo tempo ottenere tanto successo. Nella rimozione e nella negazione non si tratta in prima linea della difesa del Terzo Reich e del suo Führer, ma del proprio Io, che non vuole ammettere nessuna colpa, nè davanti a sé, né davanti ad altri. La perdita di un orientamento umano attraverso la profonda identificazione con le idee di Hitler ...si è rivelata come l’eredità più ostinata lasciata dallo Statonazionalsocialista e dal suo terreno storico.”

La negazione della realtà, ancor prima della sua mistificazione, fu infatti uno dei pilastri dell’ideologia nazista. Questa aveva esautorati i tedeschi dalla lotta di classe, dallo scontro tra partiti (Weimar!), da ogni pensiero critico e dalla politica tout court. Dall’inizio, ovvero dal 1933 in poi, il regime aveva, p.es. distrutto anche le tracce dell’opposizione antinazista individuale e di gruppo, oltre alle persone. Hitler stesso si vantò del fatto che in Germania non c’era (più) resistenza al suo Reich. Eppure nei sei anni precedenti la guerra i nazisti avevano incarcerato e in parte ucciso circa. un milione di tedeschi antifascisti (politici, religiosi, oltre ai disabili, malati di mente ecc.), nelle carceri e nei Lager eretti dappertutto in Germania. Non se ne accorse nessuno? Questa domanda è rimasta per decenni un grande tabù.

Viktor Klemperer aveva descritto in loco i meccanismi mistificatori non solo del linguaggio del nazismo quotidiano (in LTI, Lingua Terti Imperii, 1947 Berlino est, nella RFT 1966 e i suoi Diari, trad. anche in italiano ). Fu Raul Hilberg a cominciare ad indagare negli anni ‘80 su ciò che era usuale nella totale anomalia della repressione puntando il dito sulla folla di spettatori che hanno convissuto tranquillamente con ciò che avevano deciso di non voler vedere. (cfr. Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, 1994)

Di più. Ancora oggi la rimozione della Resistenza è attiva: sono vive nella memoria pubblica occidentale soltanto l’azione della Weisse Rose/Rosa Bianca dei fratelli Scholl a Monaco e l’attentato di Stauffenberg a Hitler del 20 luglio 1944. (Il ricordo della Resistenza politica soprattutto di comunisti e altri antifascisti era stato raccolto e custodito solo nella RDT ed è oggi scomparso con essa. Lì una visita al Campo di Buchenwald faceva presto parte della formazione delle scolaresche, per ricordare anche la resistenza antifascista che a Buchenwald aveva prodotto l’allora famoso Manifesto per la necessaria futura unità del movimento operaio).

Già nel 1943, Heinrich Himmler aveva annunciato (in uno dei suoi discorsi a Posen), che prima di una ritirata tedesca i campi di sterminio in Polonia avrebbero dovuti essere evacuati e rasi al suolo, “spurlos verschwinden”, senza lasciare traccia, vi doveva crescere l’erba sopra. Ecco il memoricidio annunciato che ha avuto conseguenze di lunga durata. E quando, dopo la resa della Wehrmacht nel maggio 1945, vennero esposte in molte piazze cittadine le prime foto ingrandite dell’orrore trovato nelle migliaia di lager sul territorio del Reich, i tedeschi restarono allibiti. Secondo la loro tesi di una ”colpa collettiva” di tutto il popolo - gli angloamericani avevano applicato alle immagini la scritta “Das ist eure Schuld!/ E’ colpa vostra!”. La maggioranza dei tedeschi - che fino a un momento prima aveva creduto alla vittoria finale del Führer - reagì anzitutto negando: “No, questo non può essere successo, non lo sapevamo, non è colpa nostra”. Rossana Rossanda ha descritto nella sua autobiografia il proprio smarrimento di fronte alle prime notizie e fotografie che giungevano anche in Italia, chiedendosi quale sarebbe stato l’angoscia dei tedeschi di fronte a queste rivelazioni.

Ma dopo aver visitato la Germania nel 1949, Hannah Arendt scrive che: “Da nessun’altra parte si percepisce meno che in Germania questo incubo di distruzione e orrore e da nessuna parte se ne parla meno”. (Report from Germany. The Aftermath of Nazi-Rule (1950, uscito ben 36 anni dopo in ted. “Besuch in Deutschland”, 1986). Arendt si chiedeva se si trattava di un diniego cosciente o di una reale Gefühlsunfähigkei/ mancanza d’empatia. Saranno più tardi, negli anni sessanta, i psicoanalisti Alexander e Margarethe Mitscherlich ad indagare questo fenomeno, constatando una vera e propria “incapacità a elaborare il lutto”, riferito alla perdita del Führer (e del Reich). (Die Unfähigkeit zu trauern,1967/Germania senza lutto, Psicoanalisi del Postnazismo, 1970)

Sono numerose le testimonianze di quel fenomeno descritto come Flucht vor der Wirklichkeit, che è una fuga non solo davanti alla realtà, ma anche davanti alla responsabilità. Franco Fortini ha osservato quella stessa, perdita di senso della realtà, descritta da H. Arendt come incapacità di valutare e di comprendere: “L’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo; ma solo a ripararsi alla meno peggio nelle vecchie grotte dell’anima. Favorita dalla politica occidentale, la borghesia tedesca, appena ha potuto, ha gettato sul vuoto di una generazione i luoghi comuni più filistei” (Diario tedesco 1949, p. 24)

Continua Fortini: “E senti che questo aiutare a rendere vano il tentativo di vita nuova che vedi (...) è colpa anche più grave che prepararsi ad armare le compagnie di ventura tedesche e a giustificarle fin d’ora in nome della civiltà [occid.] e dello spirito”.

Qui viene chiamato in causa la politica degli alleati occidentali e il ruolo accondiscente della borghesia tedesca e si fa riferimento alla rapida dissoluzione dell’alleanza dei vincitori dopo lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone nell’agosto del ’45. La superiorità militare statunitense fa da premessa per la seguente “guerra fredda”. Le zone occidentali della Germania diventano (Bizone1948/Trizone) il nucleo della RFT (1949), e il principale baluardo degli USA contro il blocco sovietico. Questo ha determinato tutto il futuro tedesco (ed europeo), e garantito la continuità di fondo delle strutture economiche e sociali, ma anche ideologiche del capitalismo tedesco. (Bisognerebbe aprire una parentesi sull’immediato dopoguerra, in cui il capitalismo sembrava essere superato persino nel programma di Ahlen della CDU (1947): “Il sistema capitalistico si è rivelato inadeguato agli interessi vitali dello stato e della società tedesca”, ma presto si chiuse ogni prospettiva alternativa per una Germania non allineata e democratizzata anche nelle sue strutture economiche, prevista ancora dagli Accordi di Potsdam, 1945).

Con l’inizio della Guerra fredda (1947) il vecchio anticomunismo servì di nuovo da collante anche per il nuovo establishment che ha tenuto insieme la RFT fino ad oggi, (l’anticomunismo, non l’antifascismo! Qui sta una differenza di fondo con l’Italia). L’anticomunismo ha favorito anche l’accettazione tacita della divisione nazionale, i tedeschi occidentali hanno potuto staccarsi da quest’altro “totalitarismo”! (Verlorenes Land, verlorene Schuld, come constatò P. Brückner,1978) Non solo: Un certo lassismo praticato già durante la denazificazione nella Bi-zona occidentale (tramite l’autocertificazione/ cfr. Der Fragebogen di Ernst von Salomon) permise il reintegro dell’intera classe dirigente (ex-)nazista nella RFT. (Diversamente nella zona sovietica, poi RDT, dove, dopo una diversa denazificazione, si è sostituto l’apparato dirigente con uno forgiato ex- novo delle Arbeite und bauernfakultäten(“Facoltà degli operai e dei contadini”) . Il che spiega almeno in parte l’accanimento post’89 dell’ establishment della RFT confronti di quello dell’RDT).

Infatti denazificazione e reeducation democratica (stabilite nel 1945 a Potsdam dagli Alleati) divergeranno notevolmente tra le quattro zone occupate a seconda delle divergenti analisi angloamericane, francesi e sovietiche del nazionalsocialismo. I primi passi di democratizzazione dal basso da parte di antifascisti tedeschi vennero per lo più ostacolati e rimasero al margine anche della coscienza pubblica. Tra i primi testi tedeschi che miravano ad una Aufklärung vorrei ricordare la Schuldfrage (1945/6), frutto delle prime lezioni all’università di Heidelberg del filosofo Karl Jaspers dedicati ad un'analisi storico-filosofico-giuridica della questione della colpa dei tedeschi, e il primo libro documentario che Eugen Kogon, prigioniero ebreo a Buchenwald, redasse in pochi mesi dopo la sua liberazione, Der SS-Staat (1946), che rimane una pietra miliare per la conoscenza del sistema di organizzazione industriale dell’impero delle SS.

Ma la guerra, come prodotto finale del nazionalsocialismo, ha provocato in molti tedeschi la distruzione dell’identità a livello nazionale, sociale e individuale. Per cui predomina nei contemporanei la sensazione che essi abbiano, nel 1945, vissuto un momento senza società e senza storia: Quella “sottrazione di senso” (Sinnentzug), percepita dai più, caratterizzò in seguito gli atteggiamenti di letargia o di ritiro alle esigenze più elementari, e produsse semmai scatti emotivi incontrollati di risentimento, anziché riflessione critica o pensiero e coscienza politica. (E qui vi rimando a “Germania anno zero” di Rossellini o a Die Mörder sind unter uns di W. Staudte che vedremo presto alla Casa del cinema).

La maggioranza dei tedeschi invece percepì - come vera e propria Katastrophe - non la guerra in sé, ma la pesante sconfitta (la seconda in pochi decenni) inflitta loro dagli alleati, anche se questa volta la accettarono senza cercare rivincite. Solo una piccola minoranza salutò gli alleati come “liberatori” (e gli americani più che non i russi). Molti recepirono invece la politica di occupazione come punitiva (e solo ora iniziano a conoscere fame e freddo!).

Goebbels aveva fino agli ultimi giorni di aprile del ’45 diffuso le sue profezie minacciose ca. vendette tremende che i vincitori avrebbero inflitte al popolo tedesco, che sarebbe stato, con la sconfitta non più degno di vita. Gli agghiaccianti processi di Norimberga furono valutati come Siegerjustiz/giustizia dei vincitori. E in quella sede Hermann Göring dichiarò anche: “Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza ... il popolo ha condotto una lotta per l’esistenza che si è scatenata senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio”, dando espressione a una sensazione percepibile tuttora.

Semmai la liberazione dal nazionalsocialismo viene sentita come una liberazione dalla storia stessa, oppure altrove la sconfitta è al meglio interpretata come conquista morale, legata al fascino della libertà. (come ci ha trasmesso p.es.Alfred Andersch, Le ciliegie della libertà, 1952) Nella spettrale realtà delle rovine tornano i reduci, spesso storditi e incapaci di parlare: è la breve parentesi della “Trümmerliteratur”, con una vena neorealista, dei Böll e Borchert, per citare i più conosciuti. Ma le vittime di cui parlano sono comunque i tedeschi; nell’immaginario collettivo tedesco lo sterminato numero di vittime provocate da loro stessi in Europa non compare. La coscienza dei crimini perpetrati dalle truppe tedesche nel resto del mondo, la miseria nella quale hanno precipitato popoli interi, manca, anche nella letteratura e non solo quella dei primi anni (ad esclusione dei pochi autori antifascisti sopravvissuti, tornati dall’esilio per lo più a Berlino est: da Brecht e Anna Seghers a Peter Weiss). Empatia o compassione per le vittime dei tedeschi si troverà, anche dopo, solo nei superstiti (da Nelly Sachs e Paul Celan a Günter Kunert o Jureck Becker).]

Al di là del dopoguerra: Ci vorranno vent’anni perché anche gli storici tedeschi nella RFT comincino a confrontarsi con il nazionalsocialismo.

Lo sterminio degli ebrei irrompe nel discorso pubblico, addormentato dal decennio della Restauration, della ricostruzione - a partire dall'eco del processo contro Eichmann a Gerusalemme (1961) e poi dall’AuschwitzProzess a Francoforte (da dic.1963 al 1965), recentemente rievocato da un film “Im Labyrinth des Schweigens” di un regista italiano, Giulio Ricciarelli, emigrato da bambino con i genitori in Germania. Egli ricostruisce la dura impresa di Fritz Bauer, ebreo, ex-internato, diventato Pubblico Ministero Generale dell’Assia, che riuscì dal 1958 a riunire diversi procedimenti penali nei confronti di 22 aguzzini di Auschwitz (su ben 8.000 adetti delle SS nei campi di A.) Infine vennero condannati 17 imputati.

Emblematico mi è sempre parso il caso di Raul Hilberg, l’eminente storico americano di origini viennesi, allievo di Franz Neumann alla Columbia University di New York, che aveva scritto la sua fondamentale opera sullo sterminio The Destruction of the European Jews già nei primi anni 50, elaborando per primo l’enorme mole delle carte dei processi di Norimberga, ma in prima istanza non trovò un editore. Solo anni dopo, e grazie ad uno sponsor privato che gli donò 15.000 $, poté pubblicarlo negli USA(1961). Per una prima edizione tedesca (1982) ci vollero altri vent’anni e solo un piccolo editore di sinistra a Berlino (Olle &.Wolters) si rese disponibile. Hilberg stesso nella sua autobiografia ha definito l’atteggiamento reticente nei confronti della sua ricerca una “guerra dei trent’anni”. Solo nel 2006, poco prima della morte, è stato insignito del Bundesverdienstkreuz .

La presa di coscienza politica della generazione postbellica del Sessantotto tedesco e di una “nuova sinistra”, con la ribellione verbale nei confronti del “potere”, fu una reazione all’ipocrisia e al silenzio dei padri nazisti. La ricezione da parte degli studenti p.es. dei fondamentali studi dell’emigrazione degli Adorno, Horkheimer e Marcuse permette una prima critica al sistema: “Dovrebbe tacere anche del fascismo chi non vuole parlare del capitalismo”, aveva ammonito Horkheimer, già nel 1939. Ma presto, nel corso degli anni ’70 (Ostpolitik della SPD/FDP) questa critica verra’ demonizzata come antecedente tout court del terrorismo della RAF che sfocia nell’ autunno tedesco. E lo Stato, nella sua veste socialdemocratica, ristabilisce ‘calma e ordine’, preparando il terreno ad altri due decenni democristiani (di Helmut Kohl).

La valutazione adorniana della “singolarità” di Auschwitz come irreparabile Zivilisationsbruch (frattura di civiltà), vede la barbarie non come incombente, ma già avvenuta, che persiste fino a quando le condizioni di fondo che l’ hanno resa possibile continueranno ad esistere. Questo sembra non lasciare speranza, e rimane come peso sulla nostra società, nonostante la invisibilità odierna della miseria, scriveva Adorno nel 1966, in Erziehung nach Auschwitz.

Ma la vera presa d’atto emotiva dell’orrore da parte della più vasta opinione pubblica rimane legato alla trasmissione della serie TV americana “The Holocaust”, nel 1979. Entrando nelle case fu la televisione che mise i tedeschi della RFT di fronte all’epopea tragica della Famiglia Weiss, quasi 35 anni dopo l’apertura dei campi di concentramento da parte degli alleati. Da allora “Holocaust” è diventato il nome che indica tout court lo sterminio degli ebrei (delle altre vittime si parlerà solo più tardi, a fine anni ‘80) deplorato per la prima volta in pubblico da un Presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, nel 1985, in occasione del quarantennale del 1945. Egli parlò di “crimini compiuti nel nome tedesco” (sic!) – lo stesso Weizsäcker che difese il padre a Norimberga, ambasciatore di Hitler presso la Santa Sede!

Nel 1982, Helmut Kohl, cancelliere, la Germania è un“gigante economico”, ma ancora un “nano politico” (come deplora F.J.Strauss, che auspicò il ruolo guida per la Germania nella Weltmacht Europa già dagli anni ’60, dotata magari di armamento atomico). La “normalizzazione” è alle porte. Poco dopo, nel 1987, la FAZ pubblica le (vecchie!) tesi revisioniste e apologetiche dello storico Ernst Nolte che danno l’avvìo al cosiddetto“Historikerstreit”, il dibattito sull’interpretazione del Terzo Reich, in cui si nega fra l’altro il carattere “singolare” dell’Olocausto, al quale ora si accosta e si equipara l’espulsione dei tedeschi dai territori orientali a fine guerra. Anche se non assunte dalla storiografia ufficiale queste tesi lasciano un’impronta nell’inconscio collettivo, sicché in occasione del cinquantenario del bombardamento di Dresda perfino un quotidiano berlinese di sinistra, la Taz (Tageszeitung), può scrivere: “Nei giorni successivi si estendeva l’odore di Auschwitz alla città” (13.2.1995).

La cosiddetta “Wende/ svolta” del 1989/90 con la seguente riunificazione ha cambiato tutti i termini anche del passato tedesco: perché con essa la RFT ha superato le conseguenze della guerra. Ora può finalmente cambiar pagina e uscire da quello stato di minorità politica, nel quale si sentiva relegata per decenni. Chi aveva supposto che la fine della guerra fredda avrebbe potuto sciogliere anche i “blocchi” mentali, che avevano condizionato la visione egemonica della storia (M. Stürmer 1986) per indagare più a fondo il “wie” und “warum” (come e perché) è potuto avvenire Auschwitz, rimane deluso. Sono presto arrivati i discorsi sulla presunta Normalität di una nuova Berliner Republik, che si basano sull’affermazione di assiomi come Nationalstaat e Kapitalismus.

Anche qui ed ora il ridimensionamento del passato corrisponde al bisogno di legittimare il presente: Lo “Spiegel”, non più istanza critica, ma dal 1990 allineato al governo, esordì con un titolo trionfalistico: Bewältigte Vergangenheit/ Passato superato! nel cinquantennale dell’8 maggio(1995), quando la Bundeswehr poté (finalmente) sfilare nella grande parata della vittoria a Parigi, accanto ai vincitori della guerra. Già un mese dopo il parlamento federale poté autorizzare le prime spedizioni militari “out of area” (dopo il 1945) e in luglio la Corte Costituzionale approvò questo svuotamento della Legge Fondamentale in materia militare, per cui oggi la Germania rivendica di dover difendere i propri interessi nazionali arrivando persino nelle montagne del Hindukush.] H.L. Gremliza, editore del mensile politico “Konkret”, annota nel 1995 come la riflessione storica e le ammissioni di colpa siano diventati più a buon mercato, ora, che la svolta generazionale è ormai compiuta anche nell’establishment politico: «Sulla sedia del Presidente della RFT non siede più nessuno che abbia conferito il potere al Führer» (come Theodor Heuss. primo Presidente. della RFT, FDP,1949-59, che aveva votato nel 1933 l’Ermächtigungsgesetz a favore di Hitler, nessun architetto di baracche per i lager (come Heinrich Lübke), secondo presidente, CDU,1959-1969. nessun membro di spicco del partito nazionalsocialista (come Walter Scheel) quarto presidente della FDP,1974-1979, o della SA (come Karl Carstens), quinto presidente della CDU, 1979-1984. Nella Cancelleria non c’è più nessun confidente del RSHA(massimo organo del Reich per la sicurezza (come Ludwig Erhardt), Ministro per l’economia 1949-1963 e padre del Wirtschaftswunder, poi secondo Cancelliere federale (dopo Adenauer) 1963-66, e nessun stretto collaboratore di Josef Goebbels (come Kurt G.Kiesinger), terzo cancelliere federale 1966-69.

E nemmeno il Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank è più presieduto (dal 1994) dall’uomo che aveva controllato l’attività produttiva dell’IG Farben ad Auschwitz-Birkenau”, ovvero da Hermann Josef Abs (1901-1994)”, direttore della Deutsche Bank dal 1938 al 1945, tra l’altro responsabile della “Arisierung”, che siedeva nel 1942 in ben quaranta consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche, compreso quello dell’IG Farben. Condannato come criminale di guerra in Jugoslavia a 15 anni di lavori forzati, non venne consegnato dalle truppe inglesi, ma venne chiamato nel 1948, nella bizona anglo-americana, a dirigere la Banca per la ricostruzione (KfW) e il Piano Marshall e poi nella RFT riprese le file della Deutsche Bank (presidente1957-67 e presidente onorario fino alla sua fine). Il banchiere dei nazisti mori a 93 anni, pluridecorato e venerato da tutti.[Per non nominare il famoso Hans Globke, dal 1949 il più stretto collaboratore di Adenauer alla Cancelleria RFT, che nel 1935 fu l’autore dei commenti alle leggi razziali di Norimberga.]

La nuova classe politica, costituita ora da quei figli ed eredi “senza colpa” dei padri nazisti, che lo sono grazie alla loro “nascita posteriore” (Gnade der späten Geburt, che H. Kohl aveva rivendicato per sé) ha incassato una tarda e – in fondo – ormai quasi inaspettata vittoria. E nelle trattative con gli alleati per la riunificazione della nazione ha ancora saputo aggirare (con l’”Accordo 2+4” del 12.9.1990) la stipula di un vero e proprio “Trattato di pace” della Germania con tutti gli ex-belligeranti – che avrebbe riaperto la questione ormai rimossa delle riparazioni di guerra (!) – con ingenti e incalcolabili conseguenze economiche.

E’ un tema molto complesso. Accennerò solo alla cosiddetta Wiedergutmachung (eufemismo che indica riparazione) per l’Olocausto: 3 mrd. DM assicurati da Adenauer (sembra su pressioni USA) a Ben Gurion nel 1952, dopo aspri dibattiti sia nella RFT che in Israele. (La CSU ritenne allora la richiesta “troppo esosa” e secondo il 44% dei tedeschi occidentali non si sarebbe dovuto pagare niente). La RDT, che aveva dovuto accollarsi da sola l’intero importo di ben oltre i 10 mrd. $ di riparazione all’URSS (pattuiti a Potsdam), si ritenne libera da dover risarcire lo stato d’Israele, convinta che la migliore Wiedergutmachung per lo sterminio fosse: eliminare quelle forze che lo avevano reso possibile.

Il capitolo delle riparazioni di guerra viene considerato chiuso da decenni dalla RFT, che aveva negli anni ’50 (come condizione per poter entrare nella NATO) e ‘60 stipulato accordi bilaterali con i principali stati occidentali e ottenuto con l’Accordo sul debito di Londra, nel 1953 (elaborato da HJ.Abs), una riduzione di oltre il 50% sul debito tedesco complessivo, rimandando quello post-1945 ed ulteriori risarcimenti (come per l’ingente Zwangsarbeit di 18 mio. deportati europei, di cui tornarono vivi solo 7 mio.) ad una futura riunificazione nazionale. Di fatto, le straordinarie agevolazioni concesse nel 1953 alla Germania fecero si che il debito della prima metà del ventesimo secolo fosse in realtà sostanzialmente cancellato.

Nel 2012, Alexis Tsipras, si è permesso di ricordare la grande sproporzione tra la cifra (irrisoria) di 115 mio. DM (=57 mio.€), concessa come forfait alla Grecia negli anni ’60, e gli ingenti danni di guerra subiti (fissati nel 1947 in 7.5 mrd. $, che ammonterebbero oggi a ca. 30 mrd. €) compresa la morte per fame di 300.000 cittadini, e ca. 60.000 ebrei deportati (per lo più da Salonicco). Tsipras ricorda inoltre che è rimasto fuori dagli Accordi di Londra del 1953 anche il risarcimento per il prestito forzato di poco meno di 500 mila RM, estorto al governo greco durante la guerra dall’Asse, per i costi dell’occupazione tedesca e italiana. L’Italia ha restituito il dovuto entro il 2000 (sec. il Trattato di pace con la Grecia), la Germania no. L’intera cifra dovuta ora (con tutti gli interessi) ammonterebbe a gran parte del debito pubblico greco. (le cifre calcolate variano tra 40, 70 e 160 mrd. €). Lo Spiegel (20/12) chiamò Tsipras uno Staatsfeind tout court e liquidò la questione col titolo: Acropoli addio! Sul titolo del numero oggi in edicola dello Spiegel Tsipras figura come Geisterfahrer (=uno che va contromano in autostrada).

Quando – dopo la riunificazione - le organizzazioni di vittime del Terzo Reich cominciarono ad avanzare le accantonate richieste di restituzione (provenienti soprattutto dagli USA per i patrimoni “arianizzati” degli ebrei) e di risarcimento (dai paesi dell’est) iniziò un’ altra lunga e penosa trattativa tra le parti, con notevoli accenti antisemiti (cfr. Norman Finkelstein, “The Holocaust Industry”). Istruttivo è il preciso e ampio resoconto del responsabile USA, Stuart E. Eizenstat, “Imperfect Justice” (NY, 2003) relativo alle trattative con le banche svizzere e con la controparte tedesca.
Dopo l’iniziale rigido rifiuto di pagare alcunché da parte di Helmut Kohl, Gerhard Schroeder (SPD), ancora presidente della Bassa Sassonia, ma desideroso di diventare Cancelliere(1998), ritenne utile non esasperare la discussione con gli USA. Egli promosse un fondo (denominato Stiftungsinitiative der deutschen Wirtschaft “Erinnerung, Verantwortung, Zukunft”/ EVZ) in cui le industrie tedesche beneficiarie del lavoro coatto versarono 5 Mrd. DM: alla fine risposero – non senza reticenze - ca. 6.000 imprese. Il governo raddoppiò la somma, così da poter rispondere almeno ad una parte delle richieste avanzate, in particolare dai paesi est europei: Polonia, Ucraina, Czechia, Belorussia, Paesi baltici. Di ca. 2,3 mio. richieste individuali fatte dal 2000 entro il 2007 vennero accettate ca. 1,6 mio. per complessivi 4,5 Mrd.€, mentre 20 mila ex-prigionieri (di complessivi milioni) sovietici vennero esclusi, perché “la prigionia non da diritto a nessun risarcimento”.

Gli Internati Militari italiani ne sanno qualcosa. Di fronte alle loro richieste, sancite da sentenze italiane eseguibili, la RFT aveva ottenuto dalla Corte Europea (3.2.2012) la garanzia dell’immunità di stato nei confronti di richieste di risarcimento da parte di persone private. Il governo Monti - sotto pressione finanziaria – l’aveva tradotto in una legge ordinaria (n.5/2013) e con ciò bloccato tutto. Ma la Corte Costituzionale italiana (n.238/14) ha nello scorso ottobre dichiarato però quella legge anticostituzionale. La questione dunque resta aperta.

E il governo tedesco si trova ancora una volta confrontato con obblighi morali e legali a cui continua ancora di volersi sottrarre. La vecchia RFT, addomesticata dagli alleati, è da 25 anni scomparsa insieme alla RDT. E il passato nazista – ora non più rimosso o negato, ma fortemente ridimensionato in Germania - resta oggi nella memoria pubblica, come anche nella storiografia bundesrepubblicana, sconnesso dalla sua contingenza materiale, ovvero da quel capitalismo tedesco sviluppatosi dal tardo Ottocento in un contesto feudal-autoritario, al quale la Repubblica di Weimar non seppe dare nessuna vera democratizzazione, ma solo una modernizzazione autoritaria sfociata e protrattasi nel Terzo Reich, e, direi, purtroppo anche oltre, nell’attuale potenza guida dell’Europa.

Susanna Böhme-Kuby, già docente di Letteratura Tedesca presso le Università di Udine e di Venezia,

si occupa di cultura tedesca con particolare attenzione al rapporto tra società e mass media. Tra le pubblicazioni:

Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (Il Nuovo Megangolo, 2002) e L'avvenire del passato / Die Zukunft der Vergangenheit. Italia e Germania: le note dolenti (Forum Edizioni, 2007).

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