Il manifesto, 21 agosto 2015
La sinistra è in una crisi storica e, direi, mondiale. Su questo tema è in corso sul manifesto (che si definisce ancora “quotidiano comunista”) un’utile ricerca, «C’è vita a sinistra ?», avviata in luglio e che dovrebbe portarci almeno all’abbozzo di una conclusione sulla base degli interventi pubblicati e in arrivo.
Sappiamo bene che da una crisi, specie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peggio sono forti. Già con Renzi prevale la politica di destra: la prospettiva è che o resiste accrescendo il suo potere personale o sarà scavalcato da un’avanzata delle forze dichiaratamente di destra. Le crisi sono una cosa seria.
Non si ricorda mai abbastanza che dopo la rivoluzione russa del 1917 e le grandi lotte operaie in tutta Europa, ci fu una risposta reazionaria con il fascismo e il nazismo che acquistarono forza con la crisi del l929 e maturarono le condizioni per la Seconda Guerra Mondiale.
Nel secondo dopoguerra ci fu un grande sviluppo economico anche in Italia ( il famoso miracolo italiano) accompagnato da un’avanzata della sinistra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comincia a maturare l’attuale gravissima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della politica, e, direi anche della cultura.
Per tentare una ripresa della sinistra, ci vuole una buona analisi dell’attuale crisi; senza una seria diagnosi non si cura una malattia. E bisogna anche chiedersi perché con la forte disoccupazione, soprattutto giovanile, non ci siano lotte e proteste, i sindacati sono indeboliti e anche la buona iniziativa di Landini fa fatica a decollare. Senza contare che oggi, il ruolo ammortizzatore delle famiglie si sta esaurendo.
L’attuale pesantissima crisi ha cause strutturali da ricercare, come sostengono importanti economisti, nella globalizzazione e nel progresso tecnico. La globalizzazione, con la rapida crescita della comunicazione comporta l’ingresso sul mercato di industrie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente svalutazione riduce i prezzi del suo prodotto, attira gli investimenti dei paesi industrializzati (da leggere un altro editoriale di Romano Prodi sul Messaggero del 15 agosto). Il progresso tecnico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e produce disoccupazione.
Due effetti assai forti che colpiscono soprattutto il lavoro vivo e, quindi, anche la soggettività stessa dei lavoratori, e che mettono in evidenza come il progresso tecnico che in regime socialista (o non capitalista) migliorerebbe le condizioni di tutti, in regime capitalistico provoca disoccupazione, marginalizzazione e miseria da una parte e concentrazione del potere e della ricchezza in un ristretto e potente gruppo di capitalisti finanziari dall’altra.
Questa del progresso tecnologico nemico strutturale del lavoro vivo è storia antica e non possiamo dimenticare che l’avvio dell’industrializzazione capitalistica in Inghilterra diede vita al movimento luddista che contestava l’introduzione delle macchine. Allora il luddismo fu travolto dallo sviluppo e dalla crescita della produttività. Ma fu battuto anche dalle lotte operaie per il miglioramento delle condizioni di lavoro e, soprattutto, dalle progressive riduzioni dell’orario (va ricordata la conquista delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).
Oggi di fronte alla attuale gravissima crisi e alla disoccupazione in crescita, bisogna rimettere al primo posto ( ma per alcuni è un controsenso) la riduzione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mercato globale è sottopagato, con orari ottocenteschi e contrasta con questa rivendicazione. Si tratta ora di rovesciare l’uso che il capitalismo fa del progresso tecnico ma ricordare anche che le progressive riduzioni dell’orario hanno contribuito alla crescita dei consumi e dello stesso mercato. Oggi una riduzione dell’orario di lavoro penso che gioverebbe anche ai capitalisti che con la finanza si arricchiscono, ma rischiano di affogarvi.
La riduzione del tempo impegnato nel lavoro dipendente accrescerebbe il cosiddetto “tempo libero”, che oltre a migliorare le condizioni di vita darebbe spazio a nuovi consumi, a nuove spese diventando così anche un fattore di crescita del mercato e della società. Anche i capitalisti dovrebbero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglioreranno. Ma i capitalisti temono da sempre che la crescita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi automaticamente il proprio potere politico ed economico.
Ma vogliamo aspettare che siano i capitalisti a proporre la riduzione dell’orario di lavoro? Oggi, anche perché la disoccupazione cresce e nel mondo del lavoro cresce non solo la domanda di salario, ma anche quella di libertà e di cultura, la riduzione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, questo immenso spazio da conquistare e organizzare, dovrebbe diventare l’obiettivo storico della classe operaia, dei suoi sindacati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.