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Luciano Gallino
Ricchezza privata e povertà pubblica
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Dalla cosiddetta "emergenza Napoli" un insegnamento per tutti: non è vero che la crescita riduce la povertà pubblica. Da la Repubblica dell’8 novembre 2006

I fatti di Napoli, inclusi omicidi in serie, emergenza rifiuti e illegalità diffusa, discendono in ultimo dalla prolungata scarsità di risorse destinate a cose come la scuola, la formazione degli adulti, il rinnovamento urbano, i servizi pubblici, il funzionamento della giustizia e delle forze dell’ordine. Sono cioè un segno drammatico di povertà pubblica. Qualcuno può pensare che si tratti d’un problema particolare di Napoli. In realtà Napoli è solo il lampeggiante rosso che segnala l’immenso divario che esiste in Italia tra ricchezza privata e povertà pubblica.

Con i suoi 29.200 dollari di reddito pro capite, calcolati a parità di potere d’acquisto, l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo. Il suo reddito è quasi uguale a quello di paesi che si sanno benestanti, come Svezia, Francia, Regno Unito e Germania; ed è appena duemila dollari sotto il ricco Giappone, tremila sotto la ricchissima Svizzera. È vero che a causa delle forti disuguaglianze nella distribuzione del reddito disponibile un quinto della popolazione italiana se la passa piuttosto male; ma i quattro quinti restanti se la passano piuttosto bene, e il quinto più ricco di questi se la passa magnificamente. Della ricchezza privata degli italiani sono indicatori efficaci, più che le rade statistiche ufficiali, il numero degli alloggi di proprietà, delle auto che costano dai 40.000 euro in su, dei lussuosi negozi di abbigliamento di ogni città grande e piccola, dei giorni annuali di vacanza che possono in totale permettersi.

Se tutto ciò distingue in meglio l’Italia, in peggio la distingue il povero stato dei beni pubblici. Fare confronti tra noi e i paesi sopra nominati è perfino umiliante. Abbiamo le peggiori autostrade della Ue, insieme con servizi ferroviari di serie B. I metro di Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, città dove il traffico è ormai un incubo, non arrivano, in totale, a 130 chilometri di lunghezza, meno d’un terzo del metro della sola Parigi. Siamo gli ultimi della Ue a 15 quanto a spese in ricerca e sviluppo, numero di ricercatori, brevetti per milione di abitanti. Metà dei nostri edifici scolastici sono fatiscenti. L’università è strozzata dalla mancanza di risorse. Oltre metà del territorio corre un elevato rischio idraulico – e dopo le alluvioni del ‘66 a Firenze e Venezia quasi nulla è stato fatto per scongiurare il loro ripetersi. Lo stato dei parchi cittadini è in media penoso. In assenza d’una politica del territorio, il paesaggio viene distrutto a ritmi senza paragoni nella Ue. In un terzo del paese, chiunque gestisca un’attività economica deve includere le tangenti alla criminalità come voce normale del bilancio d’esercizio. Non riusciamo nemmeno a smaltire i rifiuti che produciamo. Quanto ai processi civili o penali, la loro durata è ormai materia da geologi.

In astratto, lo scarto esistente tra ricchezza privata e povertà pubblica dovrebbe apparire scandaloso a tutti noi, e impegnare allo spasimo la politica nel tentativo di ridurlo. In pratica non si verifica una cosa né l’altra. Lo scontro sulla finanziaria è esemplare. La destra è insorta, e sta cercando di mobilitare mezzo paese, contro il mite tentativo che la finanziaria compie di ridistribuire in complesso meno d’un decimo di punto di Pil dai redditi più alti ai più bassi. Il messaggio che lancia la destra è qui chiarissimo: se il prezzo della difesa dell’ultimo centesimo di ricchezza privata è il degrado crescente dei beni pubblici, noi scegliamo la prima. Inutile nascondersi che almeno metà degli elettori condivide questa posizione.

D’altra parte nella finanziaria, l’atto politico più importante dell’anno, l’impegno a ridurre il divario tra ricchezza privata e povertà pubblica è pressocchè invisibile, dato che il suo impianto è schiacciato dall’intento di ridurre il debito dello stato, appianare il deficit di bilancio, rilanciare la crescita e la competitività. Intenti lodevoli, se non fosse che uno degli ostacoli principali per raggiungerli risiede precisamente nella pubblica povertà. Se un paese non investe in risorse per assicurare la legalità, dalle forze dell’ordine alla giustizia, gli imprenditori, specie quelli stranieri, si guardano dall’investire in mezzi di produzione e impianti. Se il settore pubblico non destina fondi alla ricerca e sviluppo, anche i privati ne restano lontani, e l’idea di competere con tedeschi o americani appare patetica. In Usa, per dire, la mano pubblica (governo federale, stati locali e altro) ha investito nel 2002 in R&S 98,3 miliardi di dollari, e l’industria 193,3; l’Italia appena 9 per ciascun settore. In proporzione sarebbero dovuti essere oltre 57. Un altro tasto è la produttività oraria del lavoro, che da almeno un lustro ristagna in Italia; su di essa influisce fortemente la qualità della scuola, della formazione professionale, dell’università. Per non dire dei miliardi di euro che ogni anno sono ingoiati da alluvioni, frane e crolli che una preveggente difesa del territorio potrebbe limitare.

La proposta di mettere la riduzione del divario tra ricchezza privata e povertà pubblica al centro della politica del centrosinistra si presta ovviamente a varie obiezioni. Tra le prime che vengono a mente: la Ue ci chiede anzitutto di ridurre il debito dello stato e dei nostri beni pubblici le importa poco; migliorare la condizione di questi costa, e lo stato non ha più un euro; la crescita economica indotta dalla finanziaria produrrà più risorse, che si potranno così destinare a ridurre la povertà pubblica; il solo argomento che gli elettori capiscono è meno tasse per tutti, altro che parlare loro di povertà pubblica da diminuire.

Tento quindi qualche risposta. Bisognerebbe anzitutto decidere tra finanza e sostanza. Si potrebbe infatti sostenere, guardando all’Europa, che ciò che ci allontana davvero da essa non è tanto il permanere del debito al livello attuale per qualche altro anno, quanto le dimensioni della nostra povertà pubblica a confronto degli altri paesi. Ove si ammetta questo, il debito potrebbe attendere ancora un po’, e almeno parte delle risorse ad esso destinate venire dirottate sui beni pubblici. Da parte sua l’argomento «più crescita uguale più risorse uguale più fondi per i beni pubblici» non tiene conto del fatto che l’economia contemporanea «manifesta una tendenza implacabile a provvedere una fornitura sovrabbondante di alcune cose e una quantità misera di altre» – in primo luogo dei beni pubblici. Lo ha scritto cinquant’anni fa un economista che vedeva lontano, John Kenneth Galbraith. Quanto agli elettori, magari non lo sanno, ma l’80 per cento di essi hanno in realtà un interesse materiale, oggettivo, diretto, alla riduzione della povertà pubblica. Infatti lo stesso stipendio può valere molto di più, o molto di meno, a seconda che i beni pubblici siano abbondanti o scarsi. La politica potrebbe provare a farglielo capire.

In attesa quel segnale rosso, che il caso vuole si sia acceso per ora a Napoli, continua a lampeggiare.

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