Il manifesto, 9 marzo 2016 (m.p.r.)
Da ieri la guerra in Libia è più vicina. Molto più vicina. All’uscita del vertice italo-francese di Venezia, svoltosi «nel nome di Valeria Solesin», la vittima italiana del Bataclan, i due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi. In Libia il governo unitario stenta a nascere, e il premier italiano avverte: «La formazione di un governo in Libia è una priorità, innanzitutto per il popolo della Libia. Ma i libici per primi devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito».
Quello di Renzi è un monito minaccioso ed è anche un’inversione di rotta rispetto alla linea sin qui tenuta, ribadita del resto anche ieri da un Giorgio Napolitano che continua a parlare come se fosse il presidente della Repubblica: «Nessuna azione militare senza un governo legittimo che invochi l’intervento». Sino a ieri era una condizione necessaria. Ora è solo auspicata, e chiarendo ai libici, ma in realtà anche agli italiani, che il tempo a disposizione per evitare l’arrivo delle truppe è limitato. Toni che fanno il paio con quelli del presidente francese che, dopo aver espresso solidarietà per le due vittime italiane, va giù senza perifrasi: «Vorremmo fare di tutto in Libia per la creazione di un governo. Ma la lotta contro Daesh deve essere portata avanti».
Un’inversione di marcia tanto netta dovrebbe significare che la trattativa in corso da giorni tra i due Paesi europei più coinvolti nella crisi libica ha fatto nel vertice veneziano sostanziosi passi avanti. Il principale punto critico è la composizione della spedizione, che nelle ipotesi sin qui trapelate ricadrebbe esageratamente, per Renzi, sulle spalle del suo Paese, ma è probabile che in ballo ci siano anche gli assetti della Libia dopo la guerra, o più precisamente una spartizione delle aree di influenza e dell’accesso alle fonti energetiche, che è da sempre motivo di frizione profonda tra Roma e Parigi.
I venti di guerra non spirano solo a Venezia. L’inviato dell’Onu Kobler dichiara forte e chiaro che «si deve agire subito: il tempo è un fattore determinante e Daesh si sta allargando». Kobler pensa a un’offensiva, «guidata dai libici», ma «con l’assistenza della comunità internazionale». Gli americani, dal canto di loro, premono sull’acceleratore con i raid che, informa Renzi «sono già una realtà e ne eravamo stati informati». Volenti o nolenti, quelle dell’inviato delle Nazioni unite e quelle di Washington finiscono di fatto per essere entrambe pressioni sul governo che da giorni è sotto tiro con l’obiettivo di spingerlo ad agire, quello di Roma. In questo clima di fatto prebellico, stamattina alle 11 il ministro degli Esteri Gentiloni sarà a palazzo Madama, per riferire sullo stato della crisi libica, l’eventuale coinvolgimento militare italiano e sulla vicenda tragica dell’uccisione di due ostaggi quasi contemporanea alla liberazione degli altri due. Pare impossibile, ma dopo giorni di articoli sulla stampa di mezzo mondo, di polemiche nazionali e internazionali, di dichiarazioni a raffica, preferibilmente dal video, sarà la prima volta che il governo si degna di affrontare la vicenda nella sede propria, cioè in Parlamento.
Ieri sera, il minstro teneva le dita strettamente intrecciate, nella speranza di non doversi presentare al Senato senza ancora le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano in Italia. «Dovrebbero rientrare in nottata», spiegavano fonti della Farnesina, aggiungendo però che purtroppo «mancano conferme ufficiali». Poi uno sprazzo di ottimismo: il rientro prima dell’alba pare certo, è già prevista l’autopsia al Gemelli. Ma è proprio Renzi a gelare di nuovo le attese: «Quando arriveranno le salme vi sarà data comunicazione ufficiale». Impossibile capire quale sia l’impedimento che ha sin qui impedito alle famiglie di riavere almeno i corpi dei loro congiunti. «Solo problemi logistici», assicurava al Corriere della Sera il ministro degli Esteri del governo di Tripoli Abuzaakouk: una di quelle formule fatte apposta per vincere il premio della reticenza.
Sul piano della ricostruzione degli eventi, Gentiloni sarà quasi certamente altrettanto reticente. Le versioni ufficiali sono, se non proprio bugiarde, almeno molto parziali. Molto più credibile e completa la ricostruzione uscita sull’Huffpost di ieri. Indica una vicenda che presenta un’infinità di punti in comune con la liberazione di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari, 11 anni fa. Anche in questo caso, infatti, la tragedia sarebbe arrivata a un passo dal lieto fine, quando l’accordo era sul punto di realizzarsi e il riscatto pronto. Perché, a quel punto, i rapitori abbiano deciso di dividere in due gruppi gli ostaggi per portarli fuori da Sabrata e soprattutto perché, nonostante secondo il governo di Sabrata fossero state tutte avvertite, le milizie abbiano aperto il fuoco sul convoglio uccidendo i due ostaggi italiani resta avvolto nel mistero. Proprio come quelle raffiche di mitragliatrice che, nonostante gli avvertimenti, colpirono nel 2005 la macchina sulla quale viaggiavano Giuliana Sgrena e il suo liberatore.