L'appello dei parlamentari europei, la cronaca di Giuseppe Acconcia sulle proteste spontanee contro i metodi della polizia egiziana, l'intervista di Viviana Mazza a David Runciman.
Il Fatto Quotidiano, il manifesto, Corriere della Sera, 20 febbraio 2016 (m.p.r.)
Il Fatto Quotidiano
“CASO REGENI
LA MOGHERINI INTERVENGA”
l'appello di Barbara Spinelli, Marie-Christine Vergiat e altri 43 parlamentari europei
Il 2 febbraio 2016 il corpo di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge scomparso al Cairo il 25 gennaio, è stato ritrovato in un fosso lungo una strada dei sobborghi del Cairo, con segni di orribili torture e di una morte violenta. Non è stato un semplice incidente, come affermato da un influente membro del Parlamento europeo nel corso di una visita ufficiale al Cairo. Regeni stava svolgendo una ricerca sullo sviluppo dei sindacati indipendenti nell’Egitto del dopo-Mubarak e del dopo-Morsi.
Egitto. Montano al Cairo le proteste contro la polizia. Due morti a Darb el-Ahmar e Assiut
Il nome di Giulio Regeni è sulla bocca di tutti al Cairo. Tra i tavoli dei bar di Sayeda Zeinab e nei caffè di Abdin, il centro antico della capitale egiziana, le responsabilità della polizia egiziana e più nello specifico della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla) sono evidenti. I segni sul corpo di Giulio parlano chiaro e rimandano alle pratiche dei torturatori per antonomasia che ogni giorno sconvolgono le vite di centinaia di giovani egiziani.
Ma la polizia nel regime militare di al-Sisi può fare davvero il bello e il cattivo tempo. Giovedì sera due uomini tra cui un poliziotto sono saliti su un taxi Suzuki nel quartiere di Darb el-Ahmar, nel centro antico del Cairo. Una volta raggiunta la loro destinazione si sono rifiutati di pagare il tassista: una pratica comune per i poliziotti che vivono di piccole tangenti, minacce e corruzione. Ne è nato un alterco e il tassista è stato ucciso. Le ricostruzioni si fanno sommarie ma sembra che il poliziotto sia stato aggredito dalla folla.
È subito iniziata una protesta spontanea nel quartiere contro la polizia. Un caso simile si è verificato lo scorso giovedì ad Assiut, città dell’Alto Egitto. Un altro dei quartieri cairoti dove gli scontri tra cittadini e polizia sono all’ordine del giorno è Matareya. La zona ha una forte maggioranza di Fratelli musulmani. Lì le pratiche della polizia sono sempre più dure e le torture contro gli islamisti moderati quotidiane. Proprio i medici degli ospedali di Matareya hanno protestato per la continua falsificazione dei report dei torturati, imposta con minacce dalla polizia locale.
Stavolta, con Giulio Regeni, la fabbricazione di prove false potrebbe non bastare per le autorità egiziane. Sebbene la stampa filo-governativa stia accreditando la pista dell’omicidio deciso dalla Fratellanza musulmana, nessuno crede a questa ricostruzione. Gli islamisti moderati hanno subìto la più dura repressione della loro storia. I loro leader sono in prigione, incluso l’ex presidente Morsi, con accuse vaghe e inconsistenti. Il partito, Libertà e giustizia, la confraternita e anche la Coalizione per la legittimità, nata per difendere l’ex presidente eletto, sono state dichiarate fuori legge dal 2014 in poi. Accusare quindi il primo partito di opposizione della morte del giovane dottorando italiano è davvero l’ultimo dei depistaggi per non risalire alle vere responsabilità.
Vari apparati potrebbero essere coinvolti nell’arresto, tortura e morte di Giulio. Prima di tutto il Mabahes (la polizia investigativa). È una polizia di primo livello impegnata a prelevare i sospettati di reati politici. Tra gli esponenti del Mabahes figura proprio Khaled Shalaby, detto «Erkab» (che in arabo vuol dire «sali in macchina»). Shalaby è un torturatore, condannato in primo grado dal tribunale di Alessandria, e a guida delle indagini nel caso Regeni. Dal Mabahes, Giulio Regeni potrebbe essere passato di mano in mano fino ad arrivare all’Amn el-Dawla dove sarebbe stato torturato per giorni. Non è ancora chiaro quanti giorni siano passati dal momento dell’arresto alla morte. Qui sono intervenuti anche tanti ritardi sia nella diffusione della notizia sia nell’attivazione delle autorità competenti da parte egiziana.
Infine, sono state diffuse le immagini della decapitazione di due uomini in borghese da parte di Beit al-Mekdisi, gruppo attivo nel Sinai. I due sono presentati come delle spie dell’Intelligence militare. I jihadisti del Sinai rivendicano la loro affiliazione allo Stato islamico (Isis) e si sono resi responsabili di decine di arresti sommari, decapitazioni e attentati. Sono centinaia i soldati e i poliziotti uccisi nella regione dove vige ormai da mesi lo stato di emergenza.
Corriere della Sera
L’INTERVISTA
Professor David Runciman, qual è il suo ruolo rispetto agli studi di Giulio Regeni a Cambridge?
«Io sono il capo del dipartimento di Politica e Studi internazionali e questo include il centro per gli Studi dello sviluppo dove lavorava Giulio. Ho la supervisione di tutti gli studenti che lavorano all’estero, sappiamo delle ricerche che conducono e ci assicuriamo che si tratti di lavoro accademico convenzionale, ho avuto questo ruolo con Giulio, ed eravamo consapevoli che stava lavorando anche con l’American University in Cairo».
Ha cominciato a settembre e la fine del lavoro sul campo era marzo. Doveva scrivere durante questo periodo?
«No, il punto del lavoro sul campo è di fare ricerca, lavoro d’archivio, interviste; e ci si aspetta che poi si finisca a Cambridge, non c’erano report che stava scrivendo per noi mentre era là».
Maha Abdelrahman era la sua unica supervisor a Cambridge?
«Maha era la sua supervisor e lo seguiva come seguiamo tutti gli studenti».
Gli investigatori dicono che sarebbe stato spinto a intensificare le sue ricerche in modo più partecipativo.
«Sono speculazioni senza base, e distraggono dalla questione centrale. Vogliamo sapere la verità su chi l’ha ucciso. Era un ricercatore accademico innocente ed è stato brutalmente assassinato».
Lei parla di ricerca mainstream ma altri ricercatori che trattano questi temi hanno avuto problemi con le autorità al Cairo. Non c’è una responsabilità dei docenti quando un ricercatore è mandato in un luogo potenzialmente rischioso?
«Riconosciamo di avere una responsabilità per tutti gli studenti. Giulio lavorava su un tema mainstream, cioè non un tema politico, si trattava di analisi su economia e sviluppo. Quello che gli è successo è completamente inspiegabile».
Una email di Giulio mostra che voleva fare domanda per un fondo di diecimila sterline della Antipode Foundation, un progetto tra attivismo e ricerca.
«Le ricerche che sappiamo stava conducendo non erano in un territorio opaco tra attivismo e ricerca, si trattava di ricerca accademica. Non ho visto quest’email e non commenterò».
La supervisor è stata sentita dalla Procura di Roma.
«Maha era al funerale di Giulio, è stata portata via dalla polizia e interrogata dal procuratore in circostanze che noi consideriamo estremamente insensibili, non le sono state date sufficienti spiegazioni e non parla italiano. Era in Italia per piangere Giulio, quello che è stato detto ai media italiani dopo quel colloquio non ha basi, sono state rivelate cose che si dichiara che avrebbe detto, ma lei non ha detto. Non era in grado di capire cosa veniva detto sul suo conto».
Il dipartimento ha un modulo di valutazione del rischio, un risk assessment form, quando gli studenti vanno all’estero?
«Sì, per Giulio l’ho firmato io. Abbiamo seguito i consigli del Foreign Office. Il Cairo era un posto del tutto sicuro secondo il British Foreign Office. Il fatto che qualcosa di terribile sia accaduto non invalida il fatto che quando è partito, era in linea con i criteri dei rischi».
Il risk assessment è cambiato per mandare altri studenti al Cairo?
«Lo stiamo rivedendo, anche se la valutazione del Foreign Office non è cambiata».
Cambridge avrebbe approvato il fatto che Giulio voleva scrivere per il manifesto?
«Il nostro lavoro era di approvare il suo lavoro accademico».