Il manifesto, 30 giugno 2015 (m.p.r.)
C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in queste ore in cui si consuma l’attacco finale alla Grecia democratica da parte dei cani da guardia dell’Europa oligarchica, della finanza internazionale e del Nuovo ordine coloniale a centralità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Critica della ragione pura, già celeberrimo in tutto il continente, rispondeva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La individuava nella scelta dell’autonomia; nella decisione consapevole e non priva di rischi di «uscire da una minorità della quale si è responsabili».
Intendeva dire che affidarsi alla guida di un tutore che per noi sceglie e delibera è umiliante benché comodo. Che la libertà è affascinante ma il più delle volte pericolosa. E che l’insegnamento fondamentale del movimento dei Lumi che di lì a poco avrebbe portato i francesi a sollevarsi contro l’autocrazia dell’antico regime consiste proprio in questo: nel considerare l’esercizio dell’autonomia individuale e collettiva un inderogabile dovere morale e politico. Un fatto di dignità. Essere uomini significa in primo luogo decidere per sé e rispondere delle proprie scelte. Rifiutarsi di vivere sotto il giogo di qualsiasi potere imposto con la violenza delle armi o della superstizione, del denaro o del conformismo.
Sono trascorsi oltre due secoli densi di storia. Il mondo è cambiato. Ma nessuno direbbe che quelle di Kant sono considerazioni arcaiche, inadatte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sottoscriverle. Riformulate con parole meno alate, le ripetiamo ogni qualvolta ragioniamo sui principi democratici ai quali vorremmo si ispirassero le nostre società. Eppure che succede quando i nodi vengono al pettine e la dignità di tutto un popolo è messa davvero in discussione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra minorità e autonomia?
Anche se televisioni e giornali di tutto il mondo fanno a gara per nascondere la realtà descrivendo i greci come un gregge di bugiardi parassiti (e attenzione: vale per i greci oggi quel che ci si prepara a dire domani sul conto di spagnoli, portoghesi e italiani, sudici d’Europa), è abbastanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di scatenare la guerra contro la Grecia. I soldi (pochi) sono più che altro un pretesto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.
I creditori vogliono essere certi che a pagare il «risanamento» e la permanenza nell’eurozona sia la grande massa proletarizzata dei lavoratori dipendenti, costretti a vivere stabilmente in miseria e in schiavitù. Se a pagare fossero i grandi capitali, i conti tornerebbero ugualmente. E solo così l’economia greca potrebbe per davvero risanarsi. Ma il prezzo politico sarebbe esorbitante, tale da vanificare quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «riformare» i paesi europei e conformarli finalmente al modello neoliberale di «società aperta».
La partita è quindi squisitamente politica. Se non c’è di mezzo tanto un problema di ragioneria quanto una questione politica di prima grandezza – il modello sociale, appunto: i criteri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacrosanta la pretesa del governo greco che a decidere se obbedire o meno ai diktat della troika sia il popolo che dovrà pagare le conseguenze delle decisioni assunte in sede europea. È un fatto elementare di democrazia. Che però sposta il conflitto sul terreno, cruciale e decisivo, della legittimazione dell’Europa unita: uno spostamento del tutto inaccettabile.
Non c’è da sorprendersi se proprio la decisione di Tsipras di andare al referendum popolare abbia fatto saltare il banco. L’Europa – questa Europa dei tecnocrati e degli speculatori – può accettare molte deroghe. Può tollerare gravi infrazioni alle regole finanziarie, come ha dimostrato proprio nei confronti di Francia e Germania. Può anche faticosamente chiudere un occhio su qualche misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosiddette riforme strutturali che i paesi sono chiamati a realizzare per conformarsi al modello sociale prescritto.
Ma sulla questione delle questioni – la sovranità – non si transige. Nessuno può rimettere in discussione il fatto che in Europa i presunti «popoli sovrani» non hanno voce in capitolo sul proprio destino. Finché si scherza, magari fingendo di avere un parlamento europeo, bene. Ma guai ad aprire una breccia sulla costituzione dispotica dell’Unione, che è il suo fondamento ma anche, a guardar bene, il suo tallone d’Achille.
Se questo è vero, allora un silenzio pesa assordante mentre le cronache documentano le battute finali di quest’ultima guerra intestina del vecchio continente. Dove sono finiti i «grandi intellettuali», quelli che lo spirito del tempo designa a propri portavoce, coloro la cui sapienza e saggezza reca l’onore e l’onere di indicare la retta via quando il cammino si ingarbuglia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su questo fronte tace, come se si trattasse di bazzecole. Eppure c’è ancora qualche sedicente filosofo, qualche storico, qualche giurista o sociologo in Europa. C’è chi si atteggia a interprete autentico della crisi e sforna a ripetizione libri che discutono di Europa e di democrazia. Forse che, per tornare al vecchio Kant, ciò che vale in teoria non serve a nulla in pratica?
Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sartre) di fronte alla prepotenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occorrono gesti eroici per ricordare che esistono diritti inviolabili, per chiarire che nessuna ragione al mondo consente di scaraventare un popolo nell’indigenza e nella disperazione, per rammentare che in questa partita torti e ragioni sono, come sempre, ripartiti fra tutte le parti in causa. Niente. Silenzio. A sbraitare è solo chi può permettersi di svolgere due parti in commedia, il ruolo dell’accusatore e quello del giudice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Siviglia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.