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1.- Anni fa uno studioso di demografia e problemi sociali scriveva che abbiamo aggiunto anni alla vita ma non vita agli anni. Dentro il senso così vero e profondo di quest’affermazione si radica la questione dell’ambiente vitale: la qualità dello spazio, una città e un territorio umanamente abitabili. La classe dominante (oggi la borghesia finanziaria e speculatrice) e i ceti sottoposti consenzienti poiché stretti nella logica consumistica non hanno voluto realizzare quegli assetti economici, sociali e spaziali che appunto aggiungano vita agli anni poiché rivolti esclusivamente al benestare e al benessere dell’uomo e a produrre superiori relazioni umane nella comunità vantaggiosamente insediata.
2.- Lo spazio e il suo uso, in una situazione antropologica di civiltà nel significato straussiano, dovrebbero rappresentare elevati rapporti sia ravvicinati che estesi fra gli uomini. Così, spesso, è avvenuto nel passato. Oggi sono diventati fattore ostile, generatore di penosità e ansia, alla fine punitivo, come una prigione: condizione ben più pesante per gli strati più deboli della popolazione, in primis per gli anziani, sempre più numerosi grazie alla durata media della loro restante vita, nonostante tutto molto maggiore che nel remoto passato. Non sembrerebbe necessario fornire nuove dimostrazioni, misure, come se esistesse ancora qualcuno da convincere circa la realtà in cui si ritrova. Eppure le lamentale di singole persone e di gruppi di cittadini risuonano qua e là ma non riescono a diventare contestazione di massa. Allora competerebbe a sociologi, economisti antiliberisti, urbanisti, architetti, geografi… indicare gli ideali che dovranno distinguere il sentimento comune, per ora invalidato da incultura, insipienza, vocazione all’assoggettamento.
4.- La Milano propagandata come centrale dell’animazione attorno ai due settori ritenuti motori di nuovi sviluppi economici e, addirittura, culturali, salone del mobile e tanti saloncini delle sfilate di moda non inganni; non si caschi nell’abbaglio dei tanti posti per giocosi incontri al momento dell’uno e degli altri (ah! la città viva…). Le case di moda in crisi, già vendute ad aziende straniere o prossime a chiudere, come poterle ritenere fonte di buona vita, attiva o non attiva? A una giornalista di «Vogue», pendolare fra New York e Milano e indubitabile conoscitrice del settore, chiedo di qualificare il prodotto d’oggi (prescindendo dal fatto che la maggior parte della lavorazione avvenga in paesi orientali ove lo sfruttamento tocca livelli inammissibili nell’Europa occidentale e nordica); la risposta è secca: «fuffa!». Il salone del mobile, poi, con la sua immensa catasta di cose d’ogni genere non prodotte nella nostra città – e se lo fossero non si potrebbe spacciarla come fondamento dell’economia sociale riformatrice – rappresenta il grado a cui è giunta la confusione a-culturale della domanda e dell’offerta [2].
5.- Mentre le nascite continuano a essere superate dalle morti, le uscite, quasi mai emigrazioni a lunga distanza, raffigurano un obbligo ad andarsene fuori dalla città, una decisione forzosa anche se magari descritta da sociologi ciechi quale libera volontà di tornare alla (scomparsa) campagna. La causa consiste nella mancanza di una decisa, convinta politica della residenza milanese rivolta alle famiglie lavoratrici. La realtà amministrativa e politica si è dipanata lungo i decenni fra distruzione dello storico Istituto autonomo case popolari (Iacp) e formazione dell’Azienda lombarda edilizia residenziale (Aler), premessa alla privatizzazione del patrimonio pubblico e impedimento a una domanda di giovani coppie per un’affittanza «popolare» milanese. Unica fuggevole speranza: il Comune, che si è accollato meno della metà degli alloggi, potrebbe comportarsi in senso opposto, garantendo la difesa del patrimonio indiviso.
6.- Questa insufficienza è il risvolto logico di un laisser faire a favore di una terziarizzazione spropositata in primo luogo fagocitatrice di abitazioni esistenti, poi destinataria dei tristi edifici di quest’epoca, spesso grattacieli presto invecchiati e abbandonati (decine quelli di Ligresti) o nuovi lucidati col Sidol-Henkel difficili da riempire; mentre era già iniziato lo svuotamento negli edifici del centro storico e del contorno non destinabili a un mercato di abitazioni a buon mercato. Tutte le amministrazioni succedutesi fino a oggi a iniziare da quella del sindaco Formentini (anni Novanta) hanno cavalcato un fenomeno ritenuto inevitabile e non governabile, creduto in ogni caso ultramoderno, post-industriale, post-tutto [3].
7.- Mentre vigevano anche gli effetti autonomi di trasferimento residenziale causati dalla pesante deindustrializzazione, i maggiorenti vantavano primati di terziario «avanzato» quando la gran massa invasiva e aggressiva apparteneva ai settori più tradizionali (magari anche «neri»), il contrario che generatori di progresso civile. Il peggior liberismo urbanistico in ordine ai settori funzionali non solo ha costretto molte famiglie a trasferirsi nei circondari ma esse hanno dovuto farlo senza poter scegliere il luogo. Intanto, nell’insieme il sistema classista impediva nuovi ingressi in città per risiedervi a lavoratori dipendenti del terzo settore milanese che avrebbero potuto riequilibrare in equa misura il rapporto casa lavoro.
8.- Possedere una casetta nell’hinterland più scomodo non reca alcun vantaggio se il prezzo aggiuntivo consiste nel penare due o tre ore, e più, di andirivieni per lavoro (stressanti spostamenti in automobile e avvilenti viaggi su mezzi pubblici inadeguati). La proprietà della casa secondo l’Agenzia delle entrate (giugno 2017) riguarderebbe in Italia il 77 % delle famiglie, per questo un Berlusconi continua tuttora a ripetere (il condannato ritornato nell’agone politico senza che qualcuno obiettasse) che il problema della casa non esiste. Al contrario, è il momento di distinguere prescindendo dalla diffusione della proprietà che peraltro nelle città grandi è molto inferiore (Milano, circa 60 %, secondo la stessa agenzia). Riguardo a nuovi modelli di organizzazione dello spazio fondati sulla conoscenza delle diseguaglianze sociali e sulla certezza che le divisioni classiste del territorio hanno comportato la sua degradazione funzionale ed estetica, occorre proiettare la residenzialità nella concezione e nella realtà di habitat: collocare in una prospettiva di nuova città (nuova metropoli) la città storica e la città nuova (il territorio comunale), la città madre e le periferie metropolitane.