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Rossana Rossanda
Questo era il P.C.I.
9 Marzo 2006
Recensioni e segnalazioni
Ancora qualche pagina del libro di Rossana Rossanda, La ragazze del secolo scorso, Einaudi 2005. Per conoscere la storia che è nel nostro presente, fuori dai miti e dagli anatemi

Ero andata in sezione a riannodare la continuità con i comunisti. Non erano le stesse persone, i partigiani e la rete clandestina sprofondavano dentro un'altra massa, fatta eccezione per alcuni di loro che si dimostrarono anche capaci di tessere la rete della pace - un altro fare. Ma riconoscevo il profilo, gente che lavorava e faticava ed era anche comunista. Nei due anni terribili, o ancora prima, alcuni avevano fatto la loro parte. Ma c'era anche chi non l'aveva fatta, aveva subito gli eventi, ora cercava una bussola, e mi sorprese - e dubitai che fosse giusto - che le porte fossero aperte, le modalità di accoglimento nulle. Non era certo il partito di Lenin.

Ritrovavo la fabbrica, anzi la scoprivo, non la piccola azienda di Cantú che si sarebbe moltiplicata in Brianza, ma la Innocenti, l'Alfa e la Borletti ancora in città, la Breda e le Marelli e la Falck a Sesto San Giovanni - era l'industria, la classe operaia, il paesaggio della modernità, alti muri, lunghi reparti, cortili, ciminiere, cancellate, grigiori, grandezze. Davanti a quei cancelli la strada era un po' scassata dai molti piedi, dai camminamenti, ostacolata da camion e gru; salvo alla Borletti, che si affacciava in via Washington, era come se la città si ritirasse qualche decina di metri dalla fabbrica o viceversa. Perché gli stabili dove si produceva avevano un'aria transitoria, intercambiabile, sempre meno mattoni e piú cemento e lamiere appena dietro le facciate a capanna o quelle traforate del primo Novecento. Fino alla Olivetti di Ivrea il movimento moderno non ci mise piede, la fabbrica non era architettura, soltanto contenitore. Una bellezza stava nelle macchine, ma fra gli acciai e gli snodi appariva sul giunto qualche straccio sgocciolante, la traccia dell'operaio che faceva andare la sua macchina con un colpetto, un tempo, una familiarità in piú.

Vi entravamo a portare la stampa, a tesserare e discutere, nei locali del sindacato finché non lo misero fuori, o aspettavamo gli operai e le operaie quando uscivano al sole freddolino per mangiare quel che s'erano portati da casa - le mense vennero dopo - e alla fine dei turni o la sera nelle sezioni, finché ce ne furono di adiacenti allo stabilimento. Nei primi tempi alcune grosse fabbriche erano aperte e ne facemmo qualcuna di troppo: alla Innocenti il Consiglio di gestione era signore dell'azienda, lo dirigeva un compagno intelligente e spiritoso, di quello spirito lombardo un po' sarcastico, di nome Muneghina, e il gancio che pendeva da una catena aerea in movimento si svagava talvolta a rincorrerci e magari a sollevarci per qualche metro. Parve per un poco agli operai che le fabbriche, che avevano difeso da ogni trasferimento e dal sabotaggio tedesco nella ritirata, fossero loro, cioè nostre; e non è che smettessero di funzionare. Loro, la manodopera, alla sirena dell'uscita si affrettavano verso i tram, perché ricostruendosi la città li espelleva, abitavano e venivano da fuori, sui treni o i mezzi dei pendolari, fumanti di fiato e nebbia.

Ma era un'impresa catturare le donne dal volto grigio, i lineamenti tirati e la permanente ferrosa: non facevano che correre, o per non arrivare tardi in fabbrica o per comprare il latte prima che il negozio chiudesse e preparare la schisceta per la mattina dopo. Dopo cena, mentre il marito scendeva in sezione, loro mettevano il bucato a mollo per la notte o stiravano quello che s'era asciugato, la domenica lui usciva vestito da festa e lei faceva la pulizia di fino, che vuol dire grattare il pavimento sulle ginocchia. Del resto erano di poche parole, lui e lei, il lombardo essendo stato azzittito dalla controriforma, la peste e il capitalismo.

Nella sezione si scendeva per disegnare l'altra storia, quella uscita vittoriosa e non vincente dalla Resistenza. Era l'altra guerra, sorda e di tempi lunghi. Nelle cellule di strada (per qualche anno ci furono) si scendeva la sera; nella memoria scendo sempre, perché presto le sedi che erano state fasciste restarono sí e no alle dirigenze mentre, la maggior parte venendo riconquistata da qualche proprietà, il Pci calava fortunosamente negli scantinati delle vecchie case popolari, quelle che a Milano costituirono una gran cintura dopo le case a ringhiera. Ci si accedeva dal cortile, la porta segnalata da una falce e martello o dall'annuncio dell'ultima riunione, e dopo qualche scalino si era fra le viscere dell'immobile, tubature da tutte le parti, muri ridipinti dal compagno imbianchino, due bandiere alle pareti e sul tavolo il drappo rosso che alla fine si piegava e metteva via. C'era gente, talvolta si faceva il pieno, qualcuno faceva le scale esitando per vedere com'erano i comunisti e si sedeva in fondo.

La relazione non era mai brevissima, partiva dallo stato del mondo anche se alle varie impelleva la bolletta del telefono. Si riferiva sugli eventi internazionali o del paese, e sempre di quel che aveva discusso e deciso una direzione o il comitato centrale. Si può sorridere delle approssimazioni (lo «schematismo»), del passare di gradino in gradino dal centro del mondo alla periferia, al quartiere, dall'informazione alla «direttiva», ma fu un'immensa acculturazione. Mobilitava i «quadri» e tutti coloro in grado di parlare, perché i funzionari e i giornalisti disponibili erano pochi rispetto al territorio da coprire nella metropoli a stella e nella sua grande provincia. Eravamo spediti in tram a Rogoredo o a piazzale Corvetto, ma il sabato sera o domenica mattina venivamo stipati in sei o sette sulla giardinetta d'uno di noi, che ci depositava uno per uno in provincia da un paese all'altro e aspettava con l'ultimo - ero spesso io - che finisse il comizio o la riunione per riprenderci su come i chicchi d'una collana e riportarci a Milano.

Era il partito pesante che si andò logorando negli anni settanta e ottanta e fu distrutto dalla svolta del 1989, una rete faticosa ma vivente che strutturò il popolo di sinistra contro l'omologazione dei giornali, e della radio e della prima Tv, tutte di governo. Chi ricorda che fino al 1963 non un comunista parlò dai microfoni e davanti alle telecamere? Era un popolo che si unificava in nome d'una idea forse semplificata della società, fra dubitose domande e meno dubitose risposte; ma mentre ogni altra comunicazione spingeva a una privata medietà, il partito si sforzava fin ossessivamente a vedersi nel mondo e vedere il mondo attorno a sé. La sezione di Lambrate sentiva, a giornata di lavoro chiusa, quel che aveva detto Truman, quel che succedeva a Berlino, lo confrontava con quel che aveva colto a sprazzi dalla radio, sapeva dov'erano Seul o Portella della Ginestra - l'ignorante non era disprezzato, ma neppure adulato, era la borghesia a volerci ignoranti, l'imperialismo, i padroni. Osservando quei visi in ascolto, pensavo che a ciascuno la sua propria vicenda cessava di apparire casuale e disperante, prendeva un suo senso in un quadro mondiale di avanzate o ripiegamenti. Seguiva il dibattito. Non era mai un gran dibattito. Quando uno prendeva la parola per contestare - sempre da sinistra, il partito nuovo appariva concessivo - non solo dal tavolo del relatore scattava un riflesso di difesa della linea: tutto ma non dividere quell'embrione di altro paese, non tornare atomizzati nel quartiere, soli in fabbrica.

Questo, assai irriso a fine secolo, è stato il partito che fu anche mio nel dopoguerra. Poi c'erano i gruppi dirigenti, l'eletto del popolo al comune o alla Camera. Ma quelli del seminterrato, quelli che passavano di reparto in reparto o di casa in casa, a fine lavoro, a raccogliere i bollini del tesseramento, configuravano una società altra dentro a questa. Nella quale i comunisti si volevano i più uguali e i piú disciplinati, gli sfruttati e oppressi ma sicuri di capire piú degli altri le leggi che fanno andare il mondo, con semplicità e presunzione. E convinti di essere sempre un po' al di sotto del loro proprio ideale e quindi moralisti, severi con gli altri e quella parte di sé che rischiava di essere l'altro. Tanto piú che i giorni radiosi erano stati brevi: assai presto la relazione d'apertura ebbe sullo sfondo il discorso di Churchill a Fulton e nel 1947 la rottura del governo di unità antifascista. Gli alleati della guerra si dividevano in uno scontro illimitato negli orizzonti, duro nella quotidianità. Tuttavia chi veniva dal 1945 non lo confuse con una guerra né desiderò che lo diventasse. Non pensò che si affrontassero fascismo e antifascismo. Cerco di riafferrare la percezione di allora: i nemici di classe non ci erano umanamente alieni come i fascisti, ma politicamente inconciliabili. E infatti non li chiamavamo fascisti - questo divenne corrente dopo il 1968 - ma i padroni erano i padroni, i borghesi erano borghesi, il governo era avversario. E cosí fummo anche noi per loro: eravamo dentro l'arco costituzionale e determinanti nella Costituente, ma non un partito come un altro. Noi, la base e non solo, pensammo che si sarebbe guadagnato lentamente terreno e quindi potere, la storia sarebbe andata dalla nostra parte. «Addavení baffone» fu una battuta romanesca, a Roma la lasciavano cadere fra sorriso e delusione. A Milano non circolò, i cosacchi in piazza San Pietro furono piú temuti dagli alleati e avversari che sperati da noi, come la sempre piú fantasmatica «ora x »; ma per noi il conflitto era duro, si doveva arretrare, abituarsi a un terreno che cambiava sotto i piedi, alla polizia che interveniva e pestava e, se si trovava stretta in un androne, le prendeva. La magistratura imperversava codice Rocco alla mano, presto occorse il permesso perfino per le conferenze pubbliche al chiuso, e quando cominciava una vertenza in fabbrica volavano le sassate e i vetri.

Di quel che seguí al 1945 e specie al 1947 m'è rimasta l'immagine della lotta di classe allo stato puro in una fase non rivoluzionaria, dentro steccati statuali e internazionali ben fermi. Uno schema, a rifletterci, colto e complicato, e rispetto alle ambizioni personali che si scorgevano in altri partiti, nel nostro erano le idee, il progetto, il partito che contava, non il singolo, perché nessuno da solo ce l'avrebbe fatta. Questo legò per molti anni operai, contadini che lasciavano la terra, migranti dal sud e dal Veneto bianco, che si fondevano al nord senza troppe storie, guardavano ai dirigenti tra fedeltà - anche noi avevamo gente importante - e attesa con una punta di diffidenza. A lungo restò appesa nello studio di Trentin una fotografia di Di Vittorio che incrocia lo sguardo d'un giovane operaio, si interrogano senza sorridere, c'è preoccupazione e domanda.

Quella gente arrivava stanca dalla giornata di lavoro, perlopiú povera ma non tutti, erano operai, insegnanti, ingegneri, pochi studenti, si riconoscevano per l'uso della parola, averla o non averla. Venivano vestiti con decoro, c'era vera povertà e quindi nessun poverismo. Che cosa trovavano? Oltre a sentirsi già un soggetto collettivo, e riconosciuto, una forza che era sicura di dover cambiare? Quanto e fin quando sperò, ragionevolmente nell'ambito di un mondo diviso, un mutare delle cose, dei rapporti di forza? Non saprei dire, forse non ci sono segni, giorni che indicano il venir meno inconfessato d'un domani diverso, inducono al silenzio, a diradare le presenze in sezione, perché l'essere assieme non basta piú, le parole del relatore suonano deboli.

Io scendevo come gli altri, ascoltavo, raramente parlavo, prendevo la mia parte di incarichi. Imparai molte cose ma non ero né sorpresa né sedotta, non sempre ero persuasa, ma mi pareva normale non esserlo. Non ero piú un'adolescente, non cercai e non ebbi una religiosità del partito. C'era la mia formazione, che era una cosa, e quella che intuivo nel relatore e vedevo farsi in chi mi era accanto sulle sedie, che era un'altra. Non pensai mai che dovessero coincidere. Avevo un'esperienza che mi aveva segnata e mi aspettava una mia strada, il mio lavoro, la mia vita. Nei quali c'era anche, decisivo ma non unico e neppure centrale, il Pci.

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