Ho scritto un libro - afferma Giovanni De Luna, autore di Le ragioni di un decennio 1969 79. Militanza, violenza, sconfitta, memoria(Feltrinelli, pp.253, 17 euro) - che affronta vari aspetti di un tempo che era quello delle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-69, delle stragi, del terrorismo, del compromesso storico, ma anche di una prorompente voglia di vivere, di una partecipazione politica mai così intensa e tale da delineare scenari insoliti per la nostra democrazia ».
Sono d’accordo con De Luna. Era fatale che colpiti e traumatizzati dal pesante bagaglio di stragi e dalle azioni sanguinose dei terroristi prima “neri” e poi “rossi”(o mascherati come tali) i più ricordino quel decennio come qualcosa di terribile e monotematico (gli “anni di piombo”), caratterizzato dai lutti e non da altro. Peraltro se si ricordano i terroristi e le vittime di quel periodo, si ha un quadro somigliante della situazione.
In uno studio, pubblicato nel 1984 da M. Ricci e D. Della Porta e intitolato Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, edito dal Mulino, si afferma «che il primo periodo individuato, gli anni tra il 1969 e il 1975, è caratterizzato dalla pressoché esclusiva presenza dei gruppi di destra. Nel caso degli episodi di violenza il peso della destra è pari al 95 per cento tra il 1969 e il 1973, all’85 per cento nel 1974 e Al 78 per cento nel 1975».
Il periodo successivo fino al 1982, anno in cui la violenza politica non si ferma del tutto, anche se registra un calo indubbio (basta pensare - per far due esempi - all’assassinio da parte delle Br dell’economista Ezio Tarantelli nel 1985 e dello storico Roberto Ruffilli nel 1987), «gli anni dal 1976 al 1982 - scrivono Ricci e Della Porta - sono caratterizzati da una spettacolare e improvvisa crescita di tutte le forme di violenza seguiti da un’altrettanto improvvisa e drastica flessione che porta infine tutti gli indicatori - con l’unica eccezione degli attentati a persone - a valori nettamente inferiori rispetto a quelli registrati financo nel 1969. Le violenze passano nel rapido giro di due anni dai 176 episodi del 1976 ai 781 del 1978 (che è l’anno del rapimento e assassinio di Aldo Moro) e in soli quattro anni scendono a 15 episodi nel 1982».
Le cifre assolute non sono ancora precise ma si trattò, senza dubbio, di molte centinaia di morti e di feriti. Peraltro il caso Moro fu quello che, per l’importanza del protagonista e i misteri non ancora del tutto svelati, che accompagnarono quell’episodio, su cui si concentrò l’attenzione dei testimoni e, fino ad oggi, anche quella degli storici che del decennio hanno parlato nei loro libri. Ma la domanda che molti si pongono oggi, soprattutto quelli che erano troppo giovani in quel periodo o non erano ancora nati, è questa: che altro è accaduto negli anni Settanta?
Da questo punto di vista, Giovanni De Luna, che di quel periodo parla da testimone ma anche da storico con un certo necessario distacco, avanza un’osservazione centrale: «In rotta di collisione con tutti gli strumenti dell’artificialismo politico, la società si rimodellò intorno a una illimitata fiducia nel progresso materiale (e nell’accrescimento dei beni e delle merci) e ai due più forti elementi di aggregazione che questo paese abbia mai sperimentato in un secolo di storia unitaria: l’unificazione del mercato nazionale della forza-lavoro, diventata fatto compiuto proprio negli anni ‘60; e la corsa al benessere diffuso e protetto (da un sistema di welfare che metteva al riparo di ogni rischio) sviluppatasi proprio negli anni ’80»”.
Il giudizio è condiviso da chi scrive anche perché, il libro di De Luna, è articolato, nelle pagine finali del saggio, con altre osservazioni che segnalano adeguatamente una serie di fenomeni che magari hanno inizio negli anni Settanta ma si consolidano nei due successivi decenni.
I fenomeni più significativi sono, a mio avviso, l’aumento del distacco tra la classe politica nazionale e la società in fase di forte trasformazione, l’incapacità delle istituzioni educative (ma anche della politica) di rielaborare il passato (quello più lontano ma anche quello più vicino) e la diffusione di un “revisionismo” storico e giornalistico non fondato sulle ricerche ma su motivazioni politiche contingenti. Nello stesso tempo, la difficoltà di trarre lezioni utili dalla crisi della Repubblica per evitare il riprodursi di contraddizioni ed errori che conducono il Paese all’agonia e al crollo del sistema politico, con la nascita nel ’92-93 non di una “seconda repubblica” (come spesso si dice) ma di una lunga e preoccupante transizione di cui oggi vediamo meglio tutti i pericoli.