Credo che dell’Utopia si sia ragionato anche troppo: anzi, più che ragionato, ideato utopie che, per l’appunto, sono risultate utopiche. Che poi il concetto e il nome di utopia siano stati coniati con il famoso volume di Sir Thomas Moore (Tommaso Moro) nel 1516, qualsiasi enciclopedia o Internet ce lo spiegano ampiamente. Eppure alcuni dati, più che altro glottologici, ancora rimangono e forse possono chiarire meglio un argomento così dibattuto. Ecco, già al tempo della sua identificazione, non c’è dubbio che il bravo Sir Thomas, da buon inglese, avrà pronunciato il termine, col miglior King’s English «jutópia» creando immediatamente l’equivoco di identificarla con l’ «eutopia» ossia con una buona utopia.
Mentre purtroppo è proprio l’opposto che si verifica: la maggior parte delle brillanti ipotesi utopiche sono fallimentari; dalla «Città del sole» di Tommaso Campanella al New World di Huxley, dalla Nuova Atlantide di Bacon, alla città sospesa di Yona Friedman. Anche se, per fortuna, Brasilia è stata realizzata, per non parlare del viaggio sulla Luna (anche se degli Ufo non c’è stata traccia). Che l’argomento dell’ «utopia» e dell’ «eutopia» (e io parlerei anche di «distopia» a proposito di tutte le «cattive utopie» ) sia ancora sempre attuale lo ha dimostrato un recente ciclo di seminari dedicati appunto ai vari settori dell’argomento (da quello sociologico all’artistico, dal letterario all’economico ecc.) promosso dall’Università di Urbino e da quel Dipartimento di Scienze della Comunicazione diretto dalla sapiente e vivace iniziativa della direttrice professoressa Lella Mazzoli, che ha chiamato a raccolta molti dei più impegnati «utopologi» italiani.
Del resto bisogna convenire che la stessa città di Urbino è un esempio vivente di pensiero utopico (in questo caso eutopico) quando si rifletta come una cittadina di 10 mila abitanti si sia trasformata in uno dei maggiori e più rinomati centri universitari di ben 20 mila studenti, in buona parte in seguito alla illuminante veggenza utopica di Carlo Bo. Come è noto la parola attorno alla quale stiamo ragionando è derivata dal greco ou topos (ossia «non luogo» ) a indicare una località, evento, situazione che è «fuori luogo» . Qualcosa di molto diverso, come si vede, dai «non luoghi» di Marc Augé i quali, per contro, sono semmai degli «iperluoghi» : sono dunque delle utopie del tutto — e anche troppo— realizzate.
Mi sembra infatti che uno degli equivoci nel voler considerare gli aspetti positivi e negativi delle ipotesi futuribili tanto spesso decantate e osannate (da Orwell a Huxley, dalle sette mormoniche alle pseudoreligioni e alle visioni apocalittiche) sia quello di non avere, per contro, tenuto conto di quante delle situazioni — soprattutto socio-religiose — che ci circondano siano, in effetti, soltanto delle grosse ipotesi utopiche e non debbano ottenere la considerazione e il rispetto che le circonda. Certo non è facile distinguere e precisare quali delle grandi ipotesi sociologico-politiche siano — o siano state — positive; mai come in questo caso: ai posteri l’ampia sentenza.
Eppure, per non fare che un solo esempio che può valere per decine di altri, perché non avere il coraggio di dire che lo stesso nazismo hitleriano è stato, dopo tutto, soprattutto una possente utopia? Con quali risultati tutti sanno (o dovrebbero sapere); ma indubbiamente il meccanismo malefico è iniziato con tutte le stigmate che accompagnano alcune delle più tipiche utopie. Sicché potremmo concludere notando come siamo sempre vissuti, e continueremo a vivere, basandoci su degli elementi e delle situazioni «fuori luogo» , che ci permettono più che altro di accontentare la nostra smania del mistero e le nostre speranze nell’irrealizzabile.