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Agostino Giovagnoli
Quell'appello al cuore delle periferie
1 Dicembre 2015
Jorge Mario Bergoglio
Segni di pace e di speranza dalla periferia più profonda e violenta nel continente più maltrattato.

La Repubblica, 30 novembre 2015

RICOMINCIARE dalle periferie. Non è rivolto solo alla Chiesa cattolica il messaggio che scaturisce dal coraggioso viaggio di Francesco in Africa. Aprendo la Porta santa nella cattedrale di Bangui, infatti, il papa ha trasformato questa poco nota città africana nella «capitale spirituale del mondo» e dato inizio qui ad un Anno santo della misericordia che, nelle sue intenzioni, riguarda tutta l’umanità. Ma esponendosi personalmente ai rischi del conflitto in cui oggi si contrappongono cristiani e musulmani nella Repubblica Centrafricana, ha anche voluto tenacemente testimoniare che le religioni non sono un ostacolo bensì una risorsa per la pace. È un messaggio importante anche per un’Europa spaventata dalla violenza delle sue periferie.

Con la battuta sulla sua paura delle zanzare più che dei terroristi, Francesco ha fatto capire che non teme gli uomini, neppure i più pericolosi. Ma a chi gli ha chiesto se ci potesse essere una giustificazione religiosa dei tragici eventi di Parigi ha risposto che tanta violenza «non è umana». Contro un terrorismo che si alimenta anzitutto «di paura e povertà », il dialogo interreligioso deve puntare sulla comune umanità che unisce tutti. La sua tenace volontà di portare fino a Bangui questo messaggio - contro le raccomandazioni di tanti - non è rimasta senza risposta. La presidente Samba Panza ha confessato «tutto il male che è stato fatto nella Repubblica centrafricana nel corso della storia» e chiesto «perdono a nome di tutti coloro che hanno contribuito alla discesa agli inferi» di questo paese. E l’imam Oumar Kobime Layama ha condannato le violenze perpetrate dai miliziani musulmani di Seleka, sconfessando il loro richiamo alla fede islamica. Al Papa verrà inoltre consegnato un inatteso accordo tra le due principali fazioni in lotta. Il Centrafrica spera intensamente che la visita di Francesco segni un nuovo inizio, aprendo la via della pace e riportando cristiani e musulmani a ritessere legami di «appartenenza e convivenza».

Dagli “inferi” di Bangui il messaggio di Francesco rimbalza nelle periferie europee, dove il malessere di molti giovani - non solo immigrati - genera un radicalismo che si incontra con l’ideologia fondamentalista e la violenza estrema del Daesh. I tragici eventi di Parigi hanno fatto crescere in Europa tensioni, contrasti e pregiudizi tra non musulmani e musulmani. Ma contro il terrorismo ci sono state anche dichiarazioni di imam e leader islamici europei, manifestazioni pubbliche di musulmani, presenze di uomini e donne di fede islamica nei talk-show. Sono voci di chi non è mai stato favorevole al terrorismo e non aveva il dovere di dissociarsi, ma ha capito che non basta più astenersi dalla violenza e rispettare le leggi. È una novità importante. Secondo molti, però, sono ancora pochi i musulmani che scendono in piazza e permangono in loro incertezze e ambiguità. Per questi critici manca il riconoscimento che la violenza scaturisce dalle radici stesse dell’Islam. Insomma, il dialogo non sarebbe solo inutile, ma anche impossibile e persino sbagliato. In questo clima, qualche settimana fa l’invito ufficiale in Italia di al-Tayyeb, rettore di Al Azhar e più alta autorità islamica che abbia preso esplicitamente posizione contro lo stato islamico, è stato bruscamente annullato. Ma pretendere immediata e totale identità di vedute su tutto ciò di cui si discute significa rinunciare alla convergenza di tanti in una comune opposizione alla violenza del Daesh.

L’esigenza del confronto culturale — e del dialogo interreligioso — appare sempre più forte. Subito dopo gli eventi di Parigi è risuonato il grido “siamo in guerra”. C’è chi ha parlato di 11 settembre europeo, è riapparso lo scontro di civiltà, è stata rievocata Oriana Fallaci. Ma poi sono sopravvenuti altri ricordi: la guerra in Afghanistan, quella in Iraq e l’intervento in Libia. Ricordi, cioè, di successi militari che si sono poi rivelati fallimenti politici, con un “dopo” almeno in parte peggiore del “prima”. Tony Blair ha riconosciuto l’errore commesso. Il vuoto che si è creato dopo Saddam Hussein è stato infatti riempito dallo “Stato islamico” e ha innestato un aspro scontro tra sunniti e sciiti.

«Occorre resistere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi» e «di dare addosso al nemico interno», ha ammonito Habermas, richiamando l’attentato di Utoya compiuto da un fondamentalista cristiano, Breivik. Non è l’Islam a scatenare il radicalismo, è il radicalismo dei giovani nelle periferie europee a cercare l’ideologia fondamentalista. In una partita che si gioca in gran parte sul terreno della propaganda e attraverso strumenti mediatici, sul web prima che nei campi di battaglia, coinvolgere i musulmani contro la violenza è cruciale: sono loro che più di altri possono oggi raggiungere quanti si stanno trasformando in foreign fighters.

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